IL PARADIGMA DELLA SCIENTIFICITÁ
NELL’INTERPRETAZIONE DEL TESTO POETICO
di Luca Bragaja
A l’aire claro ò vista ploggia dare,
ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere calore; 4
e dolze cose molto amareare,
e de l’amare rendere dolzore;
e dui guerrieri in fina pace stare,
e ‘ntra dui amici nascereci errore. 8
Ed ò vista d’amor cosa più forte:
ch’era feruto, e sanòmi ferendo;
lo foco donde ardea stutò con foco. 11
La vita che mi dè fue la mia morte;
lo foco che mi stinse, ora ne ‘ncendo:
ché sì mi trasse Amor, non trovo loco. 14
stutò spense; per il v.14, di cui si è riportata la lezione di Contini, invece Segre: d’amor mi trasse e misemi in su’ loco e Sanguineti: ch’Amor mi trasse e misemi in su’ loco (a sostegno di questa lo stesso Segre cita la canzone Amor da cui move tuttora e vene di Pier della Vigna, vv.11-12: di sì gran guisa m’have fatto onore / ca sé à slocato e miso m’à in suo stato)
A una classe prima del Liceo classico si propone questo sonetto di Giacomo da Lentini perché lo analizzi (cioè lo descriva, evidenziandone i meccanismi formali) e lo interpreti (cioè ne chiarisca il senso complessivo e ne giudichi il valore). L’operazione ha più di uno scopo: per la classe, iniziare a conoscere le potenzialità strutturali, immaginative e argomentative, di una tra le forme più “dense” della nostra tradizione volgare, inventata tra l’altro, come pare, proprio da Giacomo (una stanza di canzone estratta come una costola – ma dal femminile al maschile - e isolata), e fare un esercizio di analisi testuale tanto più utile quanto più minuzioso, metodico, coerente, pur nello spazio limitato di una lezione; per il docente, usare il testo e la sua ricezione da parte degli studenti (cioè da parte di un gruppo di lettura di cui fa parte lo stesso docente) per verificare la possibilità di un approccio scientifico nel rapporto con il testo. Come prima approssimazione, diciamo subito che senz’altro tra i requisiti di scientificità di un processo ermeneutico, considerato sia in assoluto sia in questo particolare contesto di attuazione, poniamo la dichiarabilità, condivisibilità, praticabilità ed efficacia dei procedimenti. E lo facciamo prima ancora di stabilire se sia possibile in generale definire “scientifico” tale processo, definizione che dovrebbe avvenire secondo criteri propri non già solamente e per tradizione della critica letteraria – criteri “interni” quanto mai vari e opinabili – ma anche delle scienze, del metodo scientifico e della sua epistemologia. Potrebbe anche verificarsi, infatti, che tale scientificità generale e sostanziale, nel nostro caso, non sia riscontrabile. O, forse, che ad una idea più complessiva ma rigida di cosa sia scientifico e cosa no, si possa contrapporre in un approccio più flessibile un’altra idea di “scienza”.
Prima di tutto, va fatta una parafrasi, soprattutto avendo di fronte studenti sedicenni già in difficoltà con un italiano odierno non annacquato. E già rischiamo di trovarci fuori da un operare “scientifico”, perché anche solo per distinguere e separare nella nostra lingua, identificandoli nel loro significato letterale, gli elementi di cui poi dovremo vedere le interazioni formali e semantiche (i loro composti chimici) dobbiamo subito compiere delle interpretazioni, e quindi affacciare delle ipotesi, che per essere confermate hanno appunto bisogno di affondare lo sguardo in quei legami, composizioni, intrecci che per ora volevamo escludere. Volutamente, discuteremo ora la parafrasi con una cura eccessiva, improponibile in classe ma in parte necessaria per chi si prepari alla classe, mentre per altre fasi giungeremo più rapidamente alle conclusioni. Non pretendiamo infatti in questa sede – non è lo scopo indicatoci – di condurre un’analisi esaustiva del testo, ma di chiarire attraverso l’analisi alcuni punti problematici riguardo al metodo. Tanto più problematici se già si manifestano in quella che dovrebbe essere l’operazione più semplice.
Perché certo è facile accettare come dizione italiana odierna del primo verso, abbastanza aderente all’originale, “Dal cielo sereno ho visto cadere pioggia”, e per il secondo “e da quello scuro provenire chiarore”, ma è una facilità che inganna soprattutto per il v. 2, mantenendosi anche in italiano la formulazione enigmatica della frase: dovendo spiegare cosa il poeta intende al v. 2, siamo sicuri sia il lampo? E se fosse un’alba? Diremo, anticipando altri passaggi analitici, che è più probabile si tratti del lampo perché questo, nella strutturazione dinamica del testo, si origina da un cielo scuro che a sua volta si produce dall’immagine conclusiva del verso precedente, la pioggia: meccanismo che si ripete lungo i primi 8 versi, in un gioco di reciproche conferme. Più enigmatica la formulazione del v. 3, “e foco arzente ghiaccia diventare”, che quasi senza parafrasi ma con uno spostamento diviene “e fuoco ardente diventare ghiaccio”: qui non è sufficiente la nostra intuizione, nessuna ipotesi pare affacciarsi, se non si conosce la credenza medievale nell’origine della grandine dalla folgore. In tal modo ancor più facilmente il ghiaccio/grandine si riproduce variandosi nella fredda neve dell’incipit successivo, in tal modo si perde però nella parafrasi e nella sua spiegazione la originaria vicinanza o “attrazione” in antitesi di “arzente ghiaccia”: e se il verso 3 non andasse letto a minore, ponendo una cesura dopo il quinario che confermerebbe nella ritmica la distanza sintattica e semantica di fuoco e ghiaccio (e foco arzente // ghiaccia diventare)? In realtà, tale cesura non è inevitabile, e non perché non serve a creare un endecasillabo “canonico” (molto prima che qualcuno definisca un canone) avendosi un secondo emistichio senario e non settenario e comunque ictus non canonici sulle sillabe 4, 6, 10. Vista la libertà della metrica delle origini, perché non leggere, ponendo un ictus sulla seconda posizione, “e fòco // arzente ghiaccia diventare” o, almeno, non porre alcuna cesura e lasciare scorrere il verso con la sua duttilità “arzente” senza cercare nel ritmo una forzata conferma alla parafrasi-spiegazione data? Cioè, perché non lasciarsi liberi di pensare che forse il fuoco del sole (già ardente per conto suo, senza bisogno di dirlo con espressione ridondante, e, forse, annunciato dal clarore-alba del v. 2 ...) può “diventare” ghiaccio ardente e cioè il caldo riverbero luminoso della neve. È chiaro che, oltre ad essere pure questa una forzatura, in questo caso del valore semantico di “diventare”, il v. 4 rischia così di parere quasi un doppione del 3, cosa certo non voluta dal poeta, soprattutto in una serie di elementi legati da polisindeto. Ci soccorre per il v. 4 ancora la cultura dell’epoca, che associava il ghiaccio al vetro: “freda neve” sarebbe metaforicamente (l’enigma si complica) un freddo vetro, dunque, inteso come lente che può generare calore concentrando la luce del sole. Interpretazione, questa, evidentemente obbligata appunto per evitare doppioni se al v. 3 si parla di riverbero della neve. Ma se al v. 3 si parla invece della folgore che diviene grandine (torniamo sui nostri passi: a questo punto la classe, già stanca, non ci vorrebbe più seguire, non vedendo l’utilità di questi andirivieni. Insomma, possibile non si sappia cosa c’è scritto?) non sussiste più il rischio del doppione e quindi proprio il v. 4 potrebbe significare il riverbero! Per ovviare al lieve senso di vertigine (soggettiva, senza dubbio) notiamo ora, grazie proprio a questo andirivieni, che nei primi emistichi della quartina si propone la coppia sostantivo – aggettivo o aggettivo – sostantivo, tranne che al v. 2 dove c’è però un aggettivo sostantivato (“lo scuro”) che “assorbe” in sé il sostantivo (fatto che, gettando – col rischio di perdere l’equilibrio – uno sguardo avanti, si ripete simmetrico al v. 6, il secondo della seconda quartina. Questo stabilisce una regolarità di nessi molto forte, e spinge a legare in “foco arzente” e non altrimenti. Ma potremmo metterci una mano e giurarlo?
Usciamo dalla prima quartina con i nostri dubbi, senza nemmeno aver compiuto una parafrasi certa ma semplicemente indicato delle vie, alcune più probabili di altre. Stranamente, chiarezza del dettato e chiarezza del significato paiono inversamente proporzionali: si va dal v. 1, dubbio nella funzione logico-sintattica di “A l’aire” (provenienza – agente – luogo) ma chiaro nel significato (pioggia a cielo sereno), al v. 4 talmente chiaro per noi nella formulazione da rendere una parafrasi impossibile più che inutile, ma divaricato quanto al significato tra due ipotesi ben diverse (lente - riverbero) date per enigma; in mezzo, il v. 2 col medesimo problema formale del v. 1 ma in più già un oscurarsi del significato (una probabile folgore, ben legata a ciò che segue – una meno probabile alba, isolata), e il v. 3 con un dubbio forse davvero peregrino che si insinua nella scorrevolezza della forma (il fuoco che, forzando la lettura ritmico-sintattica, diventa ghiaccio ardente invece del fuoco che diventa ghiaccio) e un analogo dubbio nell’enigma posto (riverbero o, più probabile, grandine). Si va, insomma, dalla banalità (se è lecito) al vero enigma, limpido e quasi indecifrabile, passando per gradazioni e commistioni intermedie. Non conforta veramente, perché sempre enigmatica, ritrovare un’immagine simile a quelle dei vv. 3 e 4 (e appunto formata da termini che nel nostro testo appartengono a immagini diverse) in Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido delle Colonne: “che fa lo foco nascere di neve” (v. 19), dove però l’evidenza del “foco” suggerisce meglio quello generato da una lente che un semplice riverbero. Con questo riferimento, introduciamo un’altra procedura, esterna, quella dei raffronti intertestuali – storicamente motivati – con “fenomeni” (i testi) paragonabili col nostro.
Abbiamo capito però che non si può tentare una sensata parafrasi del testo senza confrontarsi con la sua struttura sintattica, semantica e ritmica, senza seguire le simmetrie che il testo propone (ploggia – scuro, clarore – foco, ghiaccia – freda neve) e senza riportarsi al sistema della cultura cui appartiene. Insomma, senza spiegare, ipotizzare, connettere e dunque interpretare.
Certo, respiriamo con la seconda quartina, evidente per significati e nessi. Vediamo tuttavia che la catena che finora ha, come si è notato, legato explicit di un verso ed incipit del successivo, al v. 6 si interrompe (“dolzore” è in antitesi con “guerrieri”) nel momento in cui passa dall’ambito percettivo a quello di sentimenti e relazioni. Forse solo, appunto, per segnare una discontinuità. Anche se, a guardarli con maggiore attenzione, i due guerrieri-nemici che stanno in pace ci ricordano le antitesi apparenti, composte in ogni verso nel farsi dei fenomeni naturali, dei vv. 1-4; e l’errore (fraintendimento, divisione e allontanarsi) che nasce tra due amici (cosa non rara, anzi di nuovo quasi banale, benché dolorosa) pare il nostro scoprire (o credere di scoprire) sotto la simmetria di termini analoghi distesa tra versi consecutivi, differenze sostanziali.
A questo punto, abbandoniamo l’illusione (nata da un’esigenza di ordine e di linearità “discreta”) di poter procedere separando rigidamente i passi da fare, come l’altra illusione di arrivare a certezze indiscutibili, e tracciamo comunque la nostra strada, cercando anzi la conferma di ogni osservazione in dati riscontrabili anche ad altri livelli del testo, e accontentandoci talvolta di fattori di probabilità.
Dopo la “rottura” sintattica e semantica tra i vv. 6 e 7, provvisoria e parziale (i versi dal 2 al 9 sono di fatto legati da polisindeto in anafora; inoltre, i guerrieri sono un amaro che si fa dolce, gli amici un dolce che si fa amaro, concretizzando e umanizzando la percettività del distico precedente), giunge la vera divisione interna del testo, già di per sé sempre frazionato, presentando strofe ed endecasillabi tutti sintatticamente autonomi, senza alcuna inarcatura. Ma il punto fermo che chiude il v. 8 prepara l’ultima anafora della congiunzione, una forte, enfatica ripresa stavolta associata all’anafora del predicato iniziale, quello che regge il riprodursi del sintagma ‘nome + infinito’ nelle due quartine: “Ed ho vista”. Lo stacco si avverte nel senso, nella sintassi e nel ritmo più che nell’interpunzione, ma tutto il verso parla di un’eccezionalità, quella di Amore posto al centro del testo, che sovrasta i fenomeni, le trasformazioni e gli enigmi precedenti (ma come parafraseremo “forte”? Potente, grande, difficile a credersi ... ricordando che rima con “morte”, dobbiamo anche intendere ‘difficile a sopportare’?). “Che era ferito, e mi guarì ferendo”. Pare l’ovvia parafrasi, con un unico dubbio: se “era” fosse un “(io) era” > io ero? Certo la “cosa più forte” è detta di Amore e non di Giacomo, ma cosa impedisce che l’autore sia passato rapidamente dal sentimento personificato al suo soggetto, essendo poi la ferita propria e quella di Amore la stessa ferita? E in effetti perché dire che Amore è ferito, se poi lo stesso Amore mi guarisce? Del resto, al v. 11 “ardea” è più chiaramente riferito a Giacomo, non avendo molto senso dire che ‘Amore ardeva del fuoco d’Amore’. Il significato di fondo non cambia, dunque, anche se il ricalco della parafrasi sull’originale è forse ingannevole; ma il verso resta enigma, come accadeva nella prima quartina. Lo resta anche ricorrendo al mito della lancia di Peleo, che con un secondo colpo guarisce la ferita inferta: questo significherebbe, applicato alla lettera come chiave di lettura, che per guarire dalla ferita d’amore per una donna Giacomo è stato ferito una seconda volta (“ferendo (me)”) e cioè un nuovo amore ha sostituito il primo! Perché altrimenti (rilettura del mito) ad essere ferita è la donna amata, che così “guarisce” Giacomo dal dolore di un amore non corrisposto, pareggiando le sorti. Come decidere? Stavolta il problema non è di poco conto, anche perché ricade sul verso successivo, e viceversa. La novità formale del v. 10 sta nel superamento delle antitesi di elementi legati da paradossale rapporto di trasformazione-derivazione: l’amore è autosufficiente, le trasformazioni interne alle antitesi avvengono nell’amore e sono, meglio, duplicazioni, rispecchiamenti, come dice il poliptoto ‘feruto – ferendo’. Per cercare conferme e simmetrie con questo gioco di specchi, sentiamo che questo essere paradossalmente interni all’amore sarebbe accentuato e totale se ne fosse protagonista sempre Giacomo (guarirsi ferendosi), pur mutando l’oggetto dell’amore; più relativo e relazionale se il secondo soggetto ferito fosse la donna, pur rimanendo interni ad un unico rapporto amoroso.
Ma non è sufficiente, non ci aiuta. Dobbiamo uscire, per dir così, dall’intrico del testo, e vederlo nel contesto del genere e della produzione della “scuola” in cui riconosciamo la posizione di Giacomo. Diciamo allora che sarebbe veramente straordinario ed eretico che un poeta amoroso, innovatore ma anche fedele ai modelli provenzali e quindi al motivo del servizio d’amore fondato sulla venerazione e sottomissione nei confronti della dama, si permettesse di distogliersi da lei innamorandosi di un’altra! L’amore vero è quello che “stringe con furore” (Giacomo, Amor è uno desio che vien da core, v. 7), e avvolge sempre l’innamorato come fuoco invincibile: “ma Amor m’ha allumato/di fiamma che m’abraccia”, fiamma “und’eo so’ involto”, in Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido delle Colonne, vv. 13-14 e 31. Inoltre, l’idea che l’amore vada corrisposto e che sia ingiusto e sleale che la donna non subisca la medesima ferita dell’uomo (cosa che può accadere, ma appunto accade all’interno di un rapporto, senza uscirne), è concetto condiviso e diffuso (vedi dello stesso Giacomo il sonetto Chi non avesse mai veduto foco, v.9, “Che s’aprendesse in voi, madonna mia,” e in generale la canzone Madonna, dir vo voglio; vedi Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, dove incontriamo ancora la lancia di Peleo: “Ma si quistu putissi adiviniri,/ch’Amori la ferissi di la lanza/chi mi fer’e mi lanza,/ben crederia guarir di miei doluri,/ca sintiramu engualimenti arduri.”, vv.44-48, risolvendo forse il nostro problema di comprensione del v.10 di Giacomo). In conclusione, v. 10, e di conseguenza 11: “che ero ferito, e mi guarì ferendo(la); / il fuoco di cui ardevo spense col fuoco”, fuoco quest’ultimo che, chiudendo nel fuoco e nuovamente in poliptoto il verso, si accende nella donna.
Perché – seguendo una logica forse troppo puntigliosa – il secondo fuoco spegne il primo, se ora l’amore è corrisposto? Forse lo attutisce soltanto, o ne spegne il dolore soltanto ... non convince. Dovremmo forse ricrederci sul significato dei due versi precedenti? Da fuoco a fuoco, non capiamo qual è la vera immagine riflessa da questi specchi, trovandoci presi fra l’altro nella parte del testo in cui si accentua, si avverte un precipitare drammatico. Seguiamolo.
Non serve parafrasi per il chiarissimo e oscurissimo v. 12 (cfr. v. 4): dobbiamo solo capire quale vita Amore ha dato al poeta, e quindi quale morte ne è derivata.
La terzina finale si apre con un sostantivo seguito da relativa (“La vita che”), struttura che ripropone e varia quella del v.11 (“lo foco donde”), perché ora il sostantivo è soggetto e non oggetto, salvo farsi oggetto come dono di un vicinissimo passato nella relativa (“che mi dè”) che al v. precedente aveva valore causale. Notiamo di passaggio che la vicinanza immediata delle due forme verbali “dè fue”, che trasformandosi l’una nell’altra stringono in chiasmo e antitesi il verso (vita data > fu morte), ripropone l’identica vicinanza di “ardea stutò” costituendo coi due verbi superiori un chiasmo interno ai versi (ardere – spegnere fuoco mortale = vita data > fu la mia morte); simile struttura chiastica, più dilatata perché ora utilizza due forme verbali più distanti (“mi stinse, ora ne ‘ncendo”), pare riproporsi tra v. 11 e v. 13 (ardea – stutò = stinse – ‘ncendo), e da qui con una diffusione estrema che ne è anche vanificazione (il “non” a negare la quiete come scampo dall’amore) fino al v. 14 (stinse – ‘ncendo = mi trasse Amor = non trovo loco).
Torniamo ai vv. 11-12, per capire il significato del 12. L’adiacenza di forme verbali al centro dei due versi è contenuta, in ogni verso, da un chiasmo grammaticale tra sostantivo e verbo e semantico tra vita e morte (foco – ardea = stutò – foco; vita – dè – fue –morte). A contenere poi il chiasmo interno tra forme verbali sopra indicato c’è anche quello esterno, tra gli estremi dei due versi, non immediatamente visibile, ‘foco – foco = vita > morte’: il primo fuoco arde in Giacomo e lo consuma; il secondo fuoco, forse nella donna, compensa il primo e cioè dà vita, ma questa stessa vita ridata (l’amore corrisposto?) provoca la morte perché genera un più esteso incendio. Tale incendio non è però altro che, rinnovato, l’antico fuoco, che si credeva attutito o addirittura estinto (“lo foco che mi stinse”). Pensiamo, per un termine di confronto nella produzione di Giacomo, a quanto si dice del cuore ai vv. 7-8 di Madonna, dir vo voglio: “che vive quando more/per bene amare, e teneselo a vita.” Ma a dire il vero, tornando all’interno del testo, questo primo emistichio del v. 13, perfettamente simmetrico a quello del v.12 (“lo foco che mi stinse”, “La vita che mi dè”) e in anafora col v. 11 (“lo foco”), presenta un duplice lettura sintattica: a) il fuoco che (Amore) a mio vantaggio estinse, b) il fuoco che estinse me. Abbiamo appena utilizzato, per capire questo giro di versi, la lettura a), ma la b) col “che” soggetto e il “mi” oggetto si legherebbe per semantica al secondo emistichio del v. precedente (e se l’espressione “fue la mia morte” si riferisse ad un prima e non ad un poi rispetto a “La vita che mi dè”? Cioè il fuoco d’amore, che ora ha dato vita, era stato la mia morte, e infatti “mi stinse” ...). In ogni caso, unica consolazione, a) e b) parlano sempre dello stesso fuoco, quello che ardeva solitario nel poeta. Ma ora, sollecitati dall’aver visto che qualcosa può essere sottinteso (Amore, in a) ) oltre che dal legame fonetico e semantico di stutò/stinse, di per sé non dirimente, vediamo una terza lettura: c) il nuovo fuoco che a mio vantaggio estinse il fuoco precedente (compl. oggetto sottinteso). Dovremmo tornare, ancora una volta, indietro, riprendere ipotesi già scartate? Invece, per questo verso 12, ci fermiamo qui, con l’idea di aver presentato ipotesi in ordine di probabilità decrescente, ascoltando, è vero, più il nostro orecchio, che cerca una naturalità della lettura e una immediata riconoscibilità del significato, che una lectio difficilior sintattica. Ciò che rimane chiaro, è il restare di Giacomo preda del fuoco d’amore, morendo e vivendo insieme: ancora in Madonna, dir vo voglio, “Foc’aio al cor non credo mai si stingua;/anzi si pur alluma://perché non mi consuma?/La salamandra audivi/che ‘nfra lo foco vivi – stando sana;” (vv. 24-28).
Per l’ultimo verso, accenniamo solo alle varianti testuali di Segre e Sanguineti, citate in nota, che vedrebbero una totale identificazione, assunzione del poeta nell’amore e nel suo fuoco (interessante quella di Segre, che apre il verso con “d’amor mi trasse”, facendo forse pensare alla fine di un amore); mentre se restiamo a “ché sì mi trasse Amor, non trovo loco”, l’apparente anafora del “ché” causale coi “che” relativi dei due versi precedenti e con quello dichiarativo che apre il v. 10, seguita dal “sì” (così), che riassume in sé la vicenda paradossale descritta dai vv. 10-13, e dalla terza occorrenza del pronominale “mi” (quarta, col “sanòmi” del v.10), preparano le conclusioni: al centro è Amore (incornicia in identica posizione le due terzine), che ha portato con violenza (il significato di “trasse” incrementato dall’allitterazione con “trovo”) tra questi estremi il poeta, privandolo di qualsiasi quiete.
Brevemente, ora, dobbiamo guardare il testo più dall’alto e nell’insieme. Tra le cose dette e nate dal solco della parafrasi, si sono rilevati due meccanismi generativi di significati e immagini ulteriori: le antitesi interne ai singoli versi, che in realtà fissano i poli di una trasformazione paradossale, enigma che va inteso (claro > ploggia); il legame di omogeneità, chiaro fino al v.6, ripreso tra 7 e 8, assai più problematico nella parte finale, tra explicit di un verso/incipit del successivo (a partire da ploggia/scuro). Ma la seconda serie, quella che lega due versi, si intreccia con la prima, perché nel momento in cui nel secondo verso dall’elemento o polo incipitario si produce un’immagine opposta (clarore, fine v. 2), questa a ritroso si richiama a quella incipitaria del primo verso, strutturando cioè un chiasmo (claro – ploggia = scuro – clarore). Un dinamismo chiastico l’abbiamo rilevato in precedenza nei versi finali, ma a partire dai loro termini centrali. Ora vediamo come tale dinamismo si annunci intenso fin dall’inizio, aggiungendo al chiasmo semantico e chiaroscurale sopra indicato un altro chiasmo, grammaticale e in parte ancora semantico, che si sviluppa tra i secondi emistichi di quei primi due versi da un “lato” del chiasmo più ampio: ‘ploggia – dare = rendere – clarore’. La struttura generale è dunque: claro – ploggia (dare) = scuro – (rendere) clarore, e cioè A – B (x) = B – (x) A. Analogo fenomeno si svolge nel distico seguente, ma incrementandosi con un chiasmo grammaticale anche tra i primi emistichi (foco – arzente = freda – neve ==> struttura generale: A (a) – B (x) = (b) B – (x) A, dove le maiuscole indicano i sostantivi, le rispettive minuscole gli aggettivi e le due ‘x’ i predicati, scusandoci per simili velleità ‘algebriche’) e in più la simmetria, elegantemente variata dalla paronomasia nel suono e nel significato, di ‘rendere clarore/rendere calore’ . Nel primo distico della seconda quartina permane solo il chiasmo ‘esterno’, retto da antitesi, figura etimologica e dall’alternanza grammaticale (dolze cose – molto amareare = de l’amare – rendere dolzore); nel secondo distico, antitesi guidata anche dai suoni ora aspri ora dolci, tra i primi emistichi simmetria e tra i secondi emistichi nuovamente un chiasmo ‘interno’: ‘dui guerrieri – in pace stare = dui amici – nascereci errore’.
Il verso 9 sfugge a questo intrecciarsi e contenersi di dinamismi, ma come una pausa centrale (strutturalmente legata all’inizio del testo: ‘ho vista ... ho vista’) prepara quelli finali rilanciando il movimento attraverso il poliptoto e l’antitesi del v. 10 (‘feruto – sanòmi ferendo’). Sui versi finali, non vogliamo aggiungere nulla a quanto già detto.
Abbiamo, sostanzialmente, percorso il testo due volte, con sguardi diversi, fermandoci spesso a osservare e confrontare indietro e avanti. Abbiamo cercato, coi nostri strumenti e con la precisione che siamo in grado di avere, di essere ‘scientifici’? Forse, ma così abbiamo, con la classe e in parte con noi stessi, tradito l’idea di scientificità come visibilità, condivisibilità, verificabilità (secondo manifesta coerenza interna e aderenza al testo) dei procedimenti, perché il nostro discorso sul testo si è fatto troppo pesante e complesso rispetto al testo stesso. Certo anche per un difetto di chiarezza ordinativa ed esplicativa, chiarezza che però riteniamo la scrittura possa avere non solo per virtù di stile, ma se e quando assume in sé delle ipotesi nate in precedenza, e cioè fa precedere all’analisi quello che è già il risultato di una teoria.
In realtà, non abbiamo fatto il passo finale, rivolgere un ultimo sguardo al sonetto di Giacomo, cercare una strada principale del prodursi dell’intreccio di forme dell’espressione e del contenuto. Cerchiamo di fare ora ciò che gli studenti preferirebbero si facesse all’inizio, e cioè spiegare. Ci preoccupa una cosa: il metamorfismo delle immagini, che scorre attraverso antitesi confini di verso e incroci, pare contraddetto dall’essere ogni verso e ogni strofe bloccata non solo dalla convenzione moderna della punteggiatura, ma da vere pause semantico-sintattico-ritmiche. Frammentazione, staticità? Ma ciò che abbiamo rilevato per singoli aspetti, il comporsi di un processo da/tra elementi contraddittori, perché non potrebbe valere per l’insieme (si ricordi quanto ipotizzato sul senso dei vv. 7-8), esserne cifra stilistica segreta (e insieme evidente, come un enigma) o modello immanente? In altre parole, la paratassi frammentata e slegata non produce separazione, ma una incalzante sequenza, rilanciata con effetto tensivo proprio dai ‘tagli’ di fine verso, guidata in superficie dal polisindeto della congiunzione e in profondità dai fenomeni analizzati sopra, riassumibili nella opposizione/scambio di due campi semantici (chiaro – fuoco – calore – dolce - pace – vita ≈ scuro – ghiaccio – freddo – amaro – guerra – morte). A reggere con molteplici occorrenze, tra inizio e conclusione, le fila del processo, è l’ardore del fuoco della vita e della morte. Dichiariamo ora, in via definitiva per quanto concerne lo spazio di questa lettura, il senso del testo.
Elementi antitetici tratti dal mondo della natura o da quello dei sentimenti e delle relazioni umane, posti in impossibili rapporti e reciproche trasformazioni, ognuna legata alla successiva dall’abbraccio del chiasmo (grammaticale o semantico) che genera immagini simili alle prime ma in ordine invertito. A portare il “foco” d’amore – a farlo fluire come acqua – attraverso le varie figure e a farlo sopravvivere al suo morire sono proprio le trasformazioni guidate dalla struttura dinamica del chiasmo, così che ambiti tra sé diversi si leghino e fondano: attraverso questo fuoco “alchemico” l’esperienza ritrova la sua unità dialettica, composta di contraddizioni, e l’impossibile continua ad accadere nel tormentato mondo umano lasciando intatto lo stupore della vitalità e della passione. Di fronte a ciò, l’unica risposta è una accettazione dai connotati forse tragici, forse rassegnati, accettazione che però è essa stessa parte del processo generale, anzi un suo acme in un crescendo ritmico e in un compiersi del senso: i tre concetti-immagini conclusivi, posti nei secondi emistichi della seconda terzina, parlano di un Giacomo bruciato e avvolto da un fuoco mortale, cui non può sfuggire. Del resto, anche in un testo più accessibile e “medio”, la canzonetta Meravigliosamente, chi cerca di reprimere e nascondere il fuoco lo alimenta, “com’om che ten lo foco/ a lo suo seno ascoso,/ e quando più lo ‘nvoglia,/allora arde più loco” (vv. 29-32), con immagine di ascendenza provenzale e, in origine, ovidiana.
Dunque, l’instabilità, il movimento e mutamento continuo che torna sempre su se stesso è processo generativo sia delle forme testuali che dei sentimenti: entrambi denunciano, con la loro frequenza e complessità crescente, un’attitudine, si vorrebbe dire, ossessivo-compulsiva sia nell’uso delle tecniche retoriche sia nei comportamenti amorosi. La fedeltà al sentimento e alla sua tematizzazione poetica si traduce, così, in una singolarità e contraddittorietà psicologica che sembra superare, per intensità, tanto i modelli quanto l’elaborazione di altri siciliani: in Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido delle Colonne l’acqua non muta natura (“non cangerea natura”, v. 3) per il contatto col fuoco, perché uno dei due elementi deve invece per forza cedere totalmente all’altro (e così il poeta, che era “aigua fredda” senza Amore, rischia ora di esserne totalmente consunto); in Sei anni ho travagliato di Mazzeo di Ricco, lo “fantin” crede “pigliar lo sol ne l’agua splendiente” (v. 14), ma il sole non si trasfonde nell’acqua né è presente in essa (ed è così imprendibile, come la donna oggetto d’amore). Ad attendere, a lunga distanza, questa drammaticità per svilupparla e radicalizzarla c’è, non Guinizzelli (pure per lui – Al cor gentil rempaira sempre amore – acqua e fuoco si scontrano senza confondersi né scambiarsi) con il suo razionalismo incline alla metafisica, ma l’averroismo di Cavalcanti con la sua materialità oscura. Un singolo elemento figurativo, quello del fuoco d’amore, presente in molti altri testi di Giacomo e, come si è visto, degli altri siciliani, torna forse, transcodificato dall’eccesso d’amore a quello della conoscenza intellettuale, nel fuoco dell’ingegno ingannatore che avvolge l’Ulisse di Dante: “catun si fascia di quel ch’elli è inceso” (Inf. XXVI, v. 48).
Un testo insieme limpido, dalle immagini vivide, dotate di “clarore”, e oscuro, talora indecidibile, perché oscuro è l’enigma dell’amore. L’oscurità, cui si giunge attratti dal miraggio della chiarezza, alimenta la nostra ricerca, i nuovi enigmi – speriamo involontari – in cui si avvolge l’analisi.
Certo, un percorso così ampio su un singolo testo non è quello che realmente potrebbe svolgersi in una classe; ma l’abbiamo presentato così per chiarire a noi stessi i presupposti di metodo, per verificare la percorribilità oggettiva di alcune strade attraverso il testo e la sostanza di alcune affermazioni che altrimenti sarebbero apparse pregiudiziali. In classe, sarebbe preferibile, saltando o accennando molti dati e passaggi, porre agli studenti alcune domande-chiave, col significato di potenzialità analitico-interpretative da sviluppare: che forma hanno i singoli versi, e il rapporto tra versi? Si può individuare un meccanismo genetico di queste forme e rapporti? Ci sono strutture e immagini più frequenti? Si può intuire un dinamismo di fondo che abbia generato il testo? Perché il testo assume, nel complesso, la forma dell’enigma? E altre domande ancora.
Se dovessimo fare un rapido e di per sé insensato (una specie di lista della spesa) elenco dei principali paradigmi teorico-critici che si sono succeduti o si sono confrontati all’incirca nell’ultimo secolo e recentemente, ci troveremmo di fronte ad un’affascinante e imbarazzante ricchezza di prospettive: critica storicista, marxista, stilistica, psicanalitica, strutturalista-semiologica, decostruzionista, neoermeneutica ... e chissà cosa dimentichiamo o ignoriamo.
Ma quale teoria, approccio, metodo in classe? Come decidere, e cosa trasmettere agli studenti, se dovesse emergere che certo molti ma con completezza nessuno di questi paradigmi ricercano o presentano garanzie di scientificità? Forse dovremmo seguire un eclettismo che con un fiducioso taglio (neo)ermeneutico, usi come strumenti conoscenze storico-filologiche, analisi socioeconomiche, della semiologia e della psicanalisi, (della stilistica no, troppo vecchia!), e abbia il disincanto decostruzionista come pars destruens di sottofondo? Al di là delle battute, poco divertenti, che mascherano male un nostro vero imbarazzo, crediamo che lo strumento principale che abbiamo usato per illustrare con oggettività, per quanto possibile, il nostro “campione da laboratorio” e che di fatto usiamo in classe e usano i libri di testo sia la metodologia e strumentazione semiologica. In questa confluiscono e concordano, sia pure mutati, il lessico e le tecniche delle retoriche antiche e moderne, in questa si risolve più compiutamente nella ricerca di un modello formale organicamente immanente al testo l’idea della critica stilistica di singole cifre dello stile da rintracciare, da questa ci riconnettiamo a “serie” storiche e culturali che stanno all’esterno del testo e lo attraversano. Ma di fatto intrecciamo a questo approccio: una sfiducia in pretese troppo categoriche e assolute di descrittività e spiegabilità, che credano individuare in modo univoco e “geometrico” il funzionamento e il senso del testo; una ricerca non della psicologia dell’autore, ma di una sua figura più inscritta nel testo che realmente esterna, a partire da fatti di stile come da una simbologia testuale o talora da un ‘non detto’ o da lapsus e tic linguistici; una fiducia e un ascolto di altre voci oltre la nostra, sapendo che legittimamente i lettori fanno o almeno attivano una parte dei significati del testo, unico modo per tali significati di essere intesi e di costituire un orizzonte comune (il testo) ad autore e lettori. Non era, in fondo, del tutto una battuta. Servirebbe una metateoria o una nuova teoria critica, a detta di molti impossibile e nemmeno desiderabile? Non siamo all’altezza di tale quesito, ma possiamo avere comunque una nostra idea - tornando all’assunto iniziale – di cosa possa essere scientifico nella interpretazione del testo. Soprattutto in un’epoca della cultura in cui, a quanto ci risulta, i concetti, ad esempio, di caos e probabilità e, già dagli inizi del ‘900, l’idea che la presenza dell’osservatore e le procedure di osservazione possano modificare il campo d’osservazione o qualche sua grandezza, e nuove metodologie di ricerca ed esplicative a questi concetti collegate, sono ormai patrimonio consolidato della scienza. In questo senso la comprensione di un fenomeno non pretende di presentarsi come esplicazione esaustiva, ma come cognizione della complessità che viene accettata e come tale considerata nel suo insieme e in tutte le sue variabili (appunto “comprensione”, cum – prehendo). Di fronte alla complessità dinamica, mutevole e sfuggente del mondo anche lo scienziato rivendica doti di intuizione e un atteggiamento simpatetico col quadro osservato.
O forse, senza rischiare di maneggiare con superficialità concetti che non sono di nostro dominio, ci basterebbe dire che di fronte al testo dovremmo avere lo stesso atteggiamento (non, chiaramente, per motivazioni di ordine religioso o metafisico o mistico) del Dante scrittore del Paradiso, che si muove continuamente tra le conquiste del suo stupefacente rigore razionale e lo stimolo dell’ineffabilità di ciò che non potendo essere totalmente capito né ricordato né detto perché “oltraggio” verso i nostri limiti, pure in questo conflitto lascia in noi una traccia di senso e di passione, un’ombra della visione che ci ha catturato: “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio./Qual è colüi che sognando vede,/che dopo ‘l sogno la passione impressa/rimane, e l’altro a la mente non riede,/cotal son io, ché quasi tutta cessa/mia visïone, e ancor mi distilla/nel core il dolce che nacque da essa./Così la neve al sol si disigilla;/così al vento ne le foglie levi/si perdea la sentenza di Sibilla.” e “ne la profonda e chiara sussistenza/de l’alto lume parvermi tre giri/di tre colori e d’una contenenza;/e l’un da l’altro come iri da iri/parea reflesso, e ‘l terzo parea foco/che quinci e quindi igualmente si spiri.” (Par. XXXIII, 55-66 e 115-120)
In sintesi presentiamo ora quelli che ci sono stati proposti come criteri e garanzie di scientificità generalmente validi, e quindi da sottoscrivere dimostrandosene degni sul campo o (speriamo non sia così) di cui dichiararsi non all’altezza per restarsene confinati nell’improvvisazione empirica, nell’irrazionalità, nelle metafisiche con le loro figlie ispirazione e divinazione.
- approccio sistemico
- corretta impostazione della quaestio
- pertinenza, diligenza, specificità del metodo
- rigore processuale e argomentativo, in accordo con lo statuto epistemologico specifico
- acribia e disincanto analitico
- sensibilità estetica
- dialettica tra significato/senso, individuale/universale, parte/intero, causalità/finalità/eterogenesi dei fini, contestualizzazione/individualizzazione, analisi/sintesi, deduzione/induzione/abduzione (ragionamento verosimile, fondato su premessa minore incerta)
- capacità di discernere ipotesi e percorsi risolutivi
- ottica transrazionale
- attitudine poietica
- disponibilità al confronto
Mentre in generale concordiamo, vorremmo segnare alcuni punti interrogativi: se “sistemico” significa che l’attenzione va posta all’insieme del testo, al dinamismo reciproco di tutti i suoi aspetti e connessioni che ne fanno un sistema orientato ad un’area di senso, d’accordo; se significa invece una data e invariabile sistematicità di un metodo fondato su un a priori teorico (questo ci induce a pensare anche l’espressione “in accordo con lo statuto epistemologico”, evidentemente preesistente), abbiamo forti dubbi. Ci chiediamo poi l’esatto significato, in questo contesto, della “diligenza”, più generica rispetto a rigore e acribìa (precisione metodica), ma forse da intendere etimologicamente come attaccamento appassionato ad un oggetto di studio, tale da indurre a non trascurare alcun aspetto di esso (a meno che non si intendesse che un metodo, una volta assunto, va applicato “diligentemente”). La “sensibilità estetica”, d’altra parte, all’interno di un discorso che ricerca una propria scientificità, non sappiamo proprio cosa sia, se non un fatto squisitamente a-scientifico come la capacità non solo di percepire ma insieme di giudicare e nominare il bello e il brutto grazie ad un istinto o intuizione (“sensibilità”) in assenza di una qualsiasi consapevolezza razionale e fondata di cosa significhi “bello” e “brutto”: dote misteriosa, certo di origine divina, che fa alcuni, e non altri, poeti o critici o esteti (ma non vorremmo, sarebbe quasi paradossale, peccare di razionalismo). Immaginiamo, ma potremmo errare, che “transrazionale” significhi “che attraversa diverse ragioni”, secondo ponti logico-discorsivi (o forse estetico-emozionali?) di valenza universale tali da unificare ambiti specifici come, per esempio, le scienze esatte e la critica letteraria o, cosa che avviene nei fatti e si può definire “eclettismo critico”, diverse scuole della critica letteraria: se così fosse, al di là della formulazione leggermente oscura e assai poetica, l’idea ci pare utile e pertinente al nostro scopo. Così come concordiamo con un’attitudine “poietica”, cioè orientata al fare, a costruire concreti e condivisibili percorsi e situazioni di comprensione, scoperta, comunicazione, anche a prezzo di dover ogni volta “fare” una parte del senso del testo di cui si discute e magari entrare talmente in esso da farsene talora possedere nelle stesse strutture del proprio discorso. E al prezzo di vivere in una condizione perenne di “disincanto analitico”, nella quale è normale affidarsi a ragionamenti in cui spesso almeno una premessa è incerta.
Ma proprio per questo, perché nel fare ci si sporca sempre le mani con una qualche materia (vedi il linguaggio, vedi la poesia, vedi la storia) che sarà indubbiamente “razionale” ma dinamica, plurale e complessa, e per questo ci si presenterà sempre sotto l’aspetto, la facies del caso e dell’insondabile, pensiamo che da qualche parte nella dialettica di cause e fini veri o supposti andrebbe inserita l’idea di casualità della scrittura e della interpretazione, a suggerire una sorta di limite intrinseco (non si può e forse non si deve capire oltre, non si può pretendere di possedere il senso in via definitiva ed esatta) e insieme di alone di possibilità (lasciarsi guidare da ciò che ci appare come caso) proprio del testo e della nostra “comprensione” (vedi sopra) di esso .
Per chiarezza, e anche per riferirsi ai fondamenti della questione: se già l’idea che un segno linguistico esprima un significato (denotazione) è “comprensibile” solo all’interno di un’evoluzione storico-culturale di quel segno nell’uso di chi comunica in un sistema-lingua a sua volta in continua evoluzione; e se questo segno col suo significato, per sua natura dotato di spessore, sfumature e in realtà mutevole entra nel testo in un gioco di combinazione plurale e simultaneo con altri segni (sia colla loro natura corporea o significante sia con quella mentale o significato), potenziando e variando indefinitamente il suo valore anche secondo l’angolo di incidenza e la penetrazione dello sguardo di chi esperisce (rivive) il testo, allora quale “scienza” può fornire ipotesi così adeguate e insieme flessibili per tale mutevolezza e relazione (relatività)? In un’accezione schematica di ciò che può essere “scienza”, la risposta è ”nessuna”, e quindi ammettiamo la nostra a-scientificità. Ma se scienza è prima di tutto confrontarsi col dubbio, affrontarlo scegliendo tra altre possibili una strada che, come tutte le strade da tracciare, in qualche modo cambierà il paesaggio che percorre (eppure molto del paesaggio, questo può paradossalmente consolare, resterà non visto) ma sarà anche percorsa da altri con o senza di noi, e infine accettare il limite (il testo stesso) del nostro conoscere: allora anche questa è scienza, o meglio è questa scienza.
Da parte nostra, diremmo che questi sono alcuni, non criteri, forse credenze ed esigenze, ma fondate sulla nostra limitata esperienza dei testi e della critica e sulla fiducia in entrambi:
- non la teoria, intesa come legge predittiva ed esplicativa, ma il paradigma: un esempio-modello secondo una logica critico-testuale, che opera perché consente il “vedere come si fa”, quindi ricade nell’esperienza da cui si generano altri paradigmi;
- la verificabilità o la falsificabilità di un approccio secondo i dati dell’esperienza (il testo e il suo contesto) e secondo gli ausili utilizzati (linguistica, storia della lingua, filologia, storia delle istituzioni retoriche, comparatistica, altre discipline o ambiti); il lettore-critico deve esibire e motivare dati, riferimenti e metodi, perché possa essere approvato o confutato il suo reperimento e utilizzo di conoscenze tendenzialmente certe dell’oggettività del testo;
- va esibita, certo non negata, la soggettività del proprio approccio, del proprio punto di vista “oggettivamente soggettivo” e “soggettivamente oggettivo”, soggettività valida se internamente coerente (anche grazie all’ausilio di specifiche scuole critiche) e fondata sulle conoscenze certe o probabili, diretta alla individuazione dei significati, dei rapporti tra le forme, del senso del testo;
- la condivisibilità delle procedure in un’idea di scienza come democrazia: il metodo non va sacralizzato (non è la verità) ma reso funzionale all’autonomia critica degli studenti;
- l’autonomia critica, e la scoperta-ricreazione di un senso del testo si realizzano nell’atto comunicativo del dialogo ermeneutico e della scrittura critico-interpretativa;
- la polisemanticità del testo in rapporto a) alla rete di strade e incroci e sovrapposizioni/interferenze di forme e quindi di significati che lo compone, percorribile in modi tendenzialmente infiniti, b) alla conseguente pluralità degli interpreti e delle letture (ogni lettore con la sua ricezione e il suo sguardo vede e attiva una nuova parte del senso del testo), da cui deriva la necessità di un continuo confronto con le letture altrui, c) alla rete di rapporti intertestuali, sincronici e diacronici, nella quale il testo è nato e nella quale deve essere collocato per la sua comprensione;
- la fiducia nella coerenza di un’area plurale di significati/sensi globali, unitaria benché aperta, contro le derive aberranti della interpretazione, contro i dogmatismi, contro la negazione della riconoscibilità di un senso.
Chiudiamo ammettendo che il nostro percorso testuale e in parte intertestuale si è svolto utilizzando come fonte l’Antologia della poesia italiana a cura di C. Segre (Einaudi) e cioè un’edizione tascabile ed economica (quasi) a disposizione di qualsiasi studente, e nessuna articolata o specifica bibliografia critica da consultare e citare. Questo è giusto sminuisca la portata delle nostre analisi e affermazioni, che andrebbero diversamente motivate e verificate. D’altra parte, abbiamo dichiarato quanto c’era da dichiarare, e se c’è stato un metodo, speriamo sia visibile di per sé.
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