10 novembre 2009

Ricordo di Alda Merini (pronunciato durante la commemorazione della poetessa nella chiesa veronese di San Nicolò)

Si sono dette e scritte molte cose in questa settimana su Alda Merini, tutti quanti noi un po’ alla ricerca di una esclusività, di una verità, di un personale possesso o di un accesso privilegiato a una vicenda umana e poetica che rimane comunque nella sua realtà e unicità indecifrabile.
Io vorrei invece soffermarmi su una coincidenza che mi ha interpellato nel momento in cui mi sono chiesto che cosa ancora aggiungere al tanto già detto. Devo parlare per un momento di me e me ne scuso: ma è per la seconda volta che mi trovo qui, in questa chiesa, per provare a raccontare qualcosa sulla figura di Alda Merini, in assenza però di Alda Merini e quindi anche sulla sua assenza. La prima volta, alcuni qui lo ricorderanno bene ed è un ricordo che ora ci riempie di nostalgia, fu qualche anno fa: avevamo organizzato con don Marco e altri amici, Luca Bragaja, Massimo Natale, una serata con lei proprio qui e lei, all’ultimo, non venne: chi abbia un po’ di confidenza con Alda Merini e il personaggio che lei si era ritagliata e giocosamente, ironicamente cucito addosso, sa che questo era in fondo uno dei suoi modi di essere presente, forse anche una delle sue civetterie e timidezze; avevamo messo fuori della chiesa un cartello in cui si diceva appunto che la poetessa non sarebbe stata presente e che, per chi avesse, voluto, sarebbero state lette delle sue poesie con qualche parola di commento. La chiesa, al di là di ogni nostra attesa, si riempì lo stesso.
Amava giocare a sparire la Merini per poi magari ricomparire all’improvviso in una telefonata notturna e lunghissima.
Stasera, siamo di nuovo qui, ancora a cercare di raccogliere intorno ad un vuoto un po’ di parole e musica, quasi a volerlo misurare e toccare questo vuoto di fronte a un’assenza stavolta però ben più muta e abissale, spaventosa nella sua irreversibilità e però misteriosa nella forza che da essa si promana e che ci ha ancora condotti fin qui.
Tutto questo mi fa pensare a quanto in fondo quello dell’assenza sia stato uno dei modi del vivere di Alda Merini e dei fertili motivi all’origine della sua poesia; lei così a lungo assente dopo gli esordi giovanili, e sempre un po’ assente e immersa in una sorta di lontananza anche quando aveva ripreso fama e notorietà; e penso a quante assenze popolavano la sua vita, assenze per così dire corpose e quotidianamente frequentate nella memoria ma anche negli spazi della sua casa: i poeti amici di un tempo, l’assenza del marito, l’Ettore, che lei ci raccontava ogni tanto tornasse in un soffio d’aria o in uno sbattere di porte e si accomodasse sulla vecchia poltrona di fronte a lei. E quante assenze ha narrato nella sua poesia, quante vite mancate, quante sparizioni, quanti amanti assenti, corteggiati, implorati o maledetti. E penso anche a quanto il suo parlare privato e pubblico, spesso con noi quando l’abbiamo incontrata, si sia più volte soffermato su quella che è l’origine e il luogo di ogni assenza, proprio sulla Morte che ora è divenuta il nome e il luogo del suo non esserci.
Alda Merini è stata una esploratrice e interlocutrice dell’assenza, delle assenze, che lei ha indagato e popolato di presenze, nomi e figure.
In tutto questo credo che lei ci abbia insegnato, a me ha insegnato, che, se esiste un principio di realtà che accompagna e modula un principio di piacere, dovrà forse pure esistere, dentro l’esperienza del dolore, anche una sorta di principio di irrealtà dove raccontarsi e inventarsi e inventandosi e raccontandosi, forse guarire e poter ora anche rimanere nella vita, se non più in vita. A me Alda Merini ha dimostrato che esiste una dimensione di irrealtà che può essere abitata, esiste un invisibile che attraversa la concretezza della nostra vita. Credo che questo invisibile e questa realtà siano stati fonte e spazio della sua poesia, di quel dono che lei sempre aveva riconosciuto come misteriosamente ricevuto e che ora altrettanto misteriosamente avrà ricondotto alla sua origine e restituito moltiplicato.
Ora che Alda Merini non c’è più, almeno nei termini in cui siamo soliti distinguere tra ciò che c’è e non c’è, a me, che ho avuto la fortuna di poterla avvicinare, resta soprattutto un senso di tenerezza per una donna che, dentro i suoi mille travestimenti e invenzioni, mi sembrava rimanere nel suo intimo e nei suoi pudori l’inquieta adolescente del dopoguerra, “minima ed immensa” come si definiva in una poesia di quegli anni; o la signorina degli anni Cinquanta che camminava, composta e un po’ sfrontata insieme, per le strade di Milano con sguardi già pieni di allarme
E mi resta anche un senso di gratitudine perché Alda Merini ha saputo portare la parola dell’umano nei luoghi senza parola, muti e disabitati della follia, e estendendo fin là i confini della poesia ha esteso fin là i confini della nostra umanità, consentendoci di abitarli ora e nominarli senza paura; a me ha mostrato che dove può arrivare la parola della poesia può arrivare per l’uomo, e in fondo per ciascuno di noi, la possibilità di “salvarsi” se non nei termini della certezza e della sicurezza, in quelli della possibilità di esistere con i propri sogni e fantasmi d'amore e di dolore.

05 novembre 2009

Siamo ridotti a così maligne ore
da chiedere implorare
il ritorno della morte
come male minore

01 aprile 2007

31 marzo 2007

Premio "Lorenzo Montano" - scritture critiche degli studenti

PER PAESAGGI

pagina ispirata ai libri finalisti della sezione “Poesia edita”
del Premio “Lorenzo Montano” 2006
di
Giorgio Fogliani, Annalisa Lombardi, Chiara Pozzati
del Liceo Ginnasio di Stato “Scipione Maffei” di Verona


Si delinea il mio viaggio nel “blu cobalto della notte”. Mi muovo su un sentiero che sembra tracciato. Riconosco le indicazioni impresse ai margini della strada e le seguo, segni familiari di un dolore che conosco e che ha vestito di sé ogni cosa. Sono noti i contorni e le linee di molti corpi, tanto che la strada pare evocare continuamente immagini viste altrove, quasi promesse rassicuranti di trovarmi in un mondo che ho già attraversato più volte. Appoggio il mio piede sopra l’impronta del poeta lasciata sulla neve e faccio sì che i suoi passi diventino i miei.
Per vedere un’altra notte, più profonda e buia, la notte transilvanica, devo chiudere gli occhi. Arrivati qui camminare, seguire una strada non è più possibile. Ci si può soltanto abbandonare a questo meccanismo di associazioni e richiami, al dissolversi di un’immagine in un’altra. Lasciare, come bambini nella culla, che le parole della madre si incarnino nei personaggi dei sogni, si mutino in figure danzanti e mobili a cui accodarsi. Mi ritrovo a seguire “l’aquila in volo prima che fossero creati i cieli”, è perso il filo, la traiettoria non esiste.
Anche sulla neve comincio a perdere le tracce. Lo stesso poeta che aveva affermato “Se ero fermo in un punto, da quel punto pensavo la traiettoria/per disciplinarla” mi dice adesso che “non siamo in nessun punto e la traiettoria è persa”. Cerco sugli scogli una sosta. “Il punto in cui la memoria cede al dolore”? Oppure la pausa è ciò che fa sì che “curare la ferita/lenire/non sarà impossibile”? Che cos’è la quiete? Occasione per tracciare di nuovo la rotta che si era persa o condizione determinante l’autodistruzione, il logorarsi delle cose? Cosa significa il centro? È punto di potenzialità allo stato puro, comune a trifoglio e quadrifoglio? È l’essenza delle cose a cui possiamo giungere solo liberati dalla “tristezza che non dà scampo”? O è l’occhio di questo ciclone sconvolgente, che sta sollevando quantità impensabili di polvere su un mondo che mi era parso consueto? All’occhio del ciclone si può o non si può tendere l’arco? Perché perfino il gelo che sento entrare nelle ossa sembra portare valori differenti? Unico sollievo “Nel cavo di un cuore steppa” e poi inverno a cui resistere con “un’ostinazione atlantica”. Perché anche la luce continua a cambiare, così che le stesse cose mi appaiono con sfumature diverse, quasi tele impressioniste, dipinte a poche ore di distanza l’una dall’altra, quasi parole scritte con caratteri, alfabeti diversi?
Questo vortice confuso mi riporta al sogno. Qui, illuminata dal “cerchio cocente del sole”, si staglia davanti ai miei occhi la “austera, solenne e risonante/cattedrale della fede poetica”. Incantato dalla sua grandiosità, mi avvicino al portale, devoto. È allora che un’impertinenza bambina, nata dall’incredibile lontananza del canto e delle cose, mi porta a bussare sulla parete di pietra, quasi a volerla smascherare, scoprire di cartongesso. Sono davvero sciamani quelli che vedo agitarsi sul fondo e quelle che sento sono proprio grida di guerrieri? O si tratta solo di costumi di scena ed è una gigantesca recita quella a cui sto assistendo, portatrice di un significato altro che adesso non riesco a cogliere?
La cenere dei sogni si dilata “a immagine della volta stellata” e mentre Urania sparge il suo canto io osservo e cerco di decifrare “questo transito d’anni”, provando a riallacciare gli elementi, a seguire l’evoluzione emotiva che ha segnato il poeta in questo lungo arco di tempo. Un percorso che, partendo da un dolore puro e pressoché globale, da un sentirsi distanti dal mondo, toccati dal tempo solo superficialmente, in lontananza, sembra portare ad un rafforzamento, ad una possibile resistenza al gelo che ci rende simili al pettirosso che canta la sua durata “al braccio dell’inverno che annotta”. Eppure ci sono poi altri momenti in cui tutto viene nuovamente messo in discussione ed io, spiazzato e confuso, mi abbandono a indecifrabili significati che mi sfuggono, fino a quando non è il poeta stesso che sembra puntare il dito in una precisa direzione: “Uscire è come divagare e molto si deve camminare/fino al punto in cui il pensiero torna a sé […] Io sono caparbio e mobile. Tu aspettami/ non spaventarti/portami verso una curva più lieve del cuore/dove il fiume possa specchiarsi e sentire/che il viaggio riparte, che i platani continueranno”
Seguendo il fiume lo scopro essere diventato quello della Transilvania, un fiume eterno, che “varca il gorgo luttuoso del tempo”. Non termina con l’aquila disseccata, con il crollo degli imperi, con il poema incompiuto nelle mani del messia magiaro, ma prosegue in un’ultima appendice, in un’invocazione sospesa allo sciamano. Il mio viaggio iniziato di notte termina nell’ardore di un fuoco giovane.

(il testo è risultato vincitore della sezione riservata alle scritture critiche degli studenti delle scuole veronesi)

Sull'interpretazione del testo poetico - di Luca Bragaja

IL PARADIGMA DELLA SCIENTIFICITÁ
NELL’INTERPRETAZIONE DEL TESTO POETICO
di Luca Bragaja



A l’aire claro ò vista ploggia dare,
ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere calore; 4

e dolze cose molto amareare,
e de l’amare rendere dolzore;
e dui guerrieri in fina pace stare,
e ‘ntra dui amici nascereci errore. 8

Ed ò vista d’amor cosa più forte:
ch’era feruto, e sanòmi ferendo;
lo foco donde ardea stutò con foco. 11

La vita che mi dè fue la mia morte;
lo foco che mi stinse, ora ne ‘ncendo:
ché sì mi trasse Amor, non trovo loco. 14


stutò spense; per il v.14, di cui si è riportata la lezione di Contini, invece Segre: d’amor mi trasse e misemi in su’ loco e Sanguineti: ch’Amor mi trasse e misemi in su’ loco (a sostegno di questa lo stesso Segre cita la canzone Amor da cui move tuttora e vene di Pier della Vigna, vv.11-12: di sì gran guisa m’have fatto onore / ca sé à slocato e miso m’à in suo stato)

A una classe prima del Liceo classico si propone questo sonetto di Giacomo da Lentini perché lo analizzi (cioè lo descriva, evidenziandone i meccanismi formali) e lo interpreti (cioè ne chiarisca il senso complessivo e ne giudichi il valore). L’operazione ha più di uno scopo: per la classe, iniziare a conoscere le potenzialità strutturali, immaginative e argomentative, di una tra le forme più “dense” della nostra tradizione volgare, inventata tra l’altro, come pare, proprio da Giacomo (una stanza di canzone estratta come una costola – ma dal femminile al maschile - e isolata), e fare un esercizio di analisi testuale tanto più utile quanto più minuzioso, metodico, coerente, pur nello spazio limitato di una lezione; per il docente, usare il testo e la sua ricezione da parte degli studenti (cioè da parte di un gruppo di lettura di cui fa parte lo stesso docente) per verificare la possibilità di un approccio scientifico nel rapporto con il testo. Come prima approssimazione, diciamo subito che senz’altro tra i requisiti di scientificità di un processo ermeneutico, considerato sia in assoluto sia in questo particolare contesto di attuazione, poniamo la dichiarabilità, condivisibilità, praticabilità ed efficacia dei procedimenti. E lo facciamo prima ancora di stabilire se sia possibile in generale definire “scientifico” tale processo, definizione che dovrebbe avvenire secondo criteri propri non già solamente e per tradizione della critica letteraria – criteri “interni” quanto mai vari e opinabili – ma anche delle scienze, del metodo scientifico e della sua epistemologia. Potrebbe anche verificarsi, infatti, che tale scientificità generale e sostanziale, nel nostro caso, non sia riscontrabile. O, forse, che ad una idea più complessiva ma rigida di cosa sia scientifico e cosa no, si possa contrapporre in un approccio più flessibile un’altra idea di “scienza”.

Prima di tutto, va fatta una parafrasi, soprattutto avendo di fronte studenti sedicenni già in difficoltà con un italiano odierno non annacquato. E già rischiamo di trovarci fuori da un operare “scientifico”, perché anche solo per distinguere e separare nella nostra lingua, identificandoli nel loro significato letterale, gli elementi di cui poi dovremo vedere le interazioni formali e semantiche (i loro composti chimici) dobbiamo subito compiere delle interpretazioni, e quindi affacciare delle ipotesi, che per essere confermate hanno appunto bisogno di affondare lo sguardo in quei legami, composizioni, intrecci che per ora volevamo escludere. Volutamente, discuteremo ora la parafrasi con una cura eccessiva, improponibile in classe ma in parte necessaria per chi si prepari alla classe, mentre per altre fasi giungeremo più rapidamente alle conclusioni. Non pretendiamo infatti in questa sede – non è lo scopo indicatoci – di condurre un’analisi esaustiva del testo, ma di chiarire attraverso l’analisi alcuni punti problematici riguardo al metodo. Tanto più problematici se già si manifestano in quella che dovrebbe essere l’operazione più semplice.
Perché certo è facile accettare come dizione italiana odierna del primo verso, abbastanza aderente all’originale, “Dal cielo sereno ho visto cadere pioggia”, e per il secondo “e da quello scuro provenire chiarore”, ma è una facilità che inganna soprattutto per il v. 2, mantenendosi anche in italiano la formulazione enigmatica della frase: dovendo spiegare cosa il poeta intende al v. 2, siamo sicuri sia il lampo? E se fosse un’alba? Diremo, anticipando altri passaggi analitici, che è più probabile si tratti del lampo perché questo, nella strutturazione dinamica del testo, si origina da un cielo scuro che a sua volta si produce dall’immagine conclusiva del verso precedente, la pioggia: meccanismo che si ripete lungo i primi 8 versi, in un gioco di reciproche conferme. Più enigmatica la formulazione del v. 3, “e foco arzente ghiaccia diventare”, che quasi senza parafrasi ma con uno spostamento diviene “e fuoco ardente diventare ghiaccio”: qui non è sufficiente la nostra intuizione, nessuna ipotesi pare affacciarsi, se non si conosce la credenza medievale nell’origine della grandine dalla folgore. In tal modo ancor più facilmente il ghiaccio/grandine si riproduce variandosi nella fredda neve dell’incipit successivo, in tal modo si perde però nella parafrasi e nella sua spiegazione la originaria vicinanza o “attrazione” in antitesi di “arzente ghiaccia”: e se il verso 3 non andasse letto a minore, ponendo una cesura dopo il quinario che confermerebbe nella ritmica la distanza sintattica e semantica di fuoco e ghiaccio (e foco arzente // ghiaccia diventare)? In realtà, tale cesura non è inevitabile, e non perché non serve a creare un endecasillabo “canonico” (molto prima che qualcuno definisca un canone) avendosi un secondo emistichio senario e non settenario e comunque ictus non canonici sulle sillabe 4, 6, 10. Vista la libertà della metrica delle origini, perché non leggere, ponendo un ictus sulla seconda posizione, “e fòco // arzente ghiaccia diventare” o, almeno, non porre alcuna cesura e lasciare scorrere il verso con la sua duttilità “arzente” senza cercare nel ritmo una forzata conferma alla parafrasi-spiegazione data? Cioè, perché non lasciarsi liberi di pensare che forse il fuoco del sole (già ardente per conto suo, senza bisogno di dirlo con espressione ridondante, e, forse, annunciato dal clarore-alba del v. 2 ...) può “diventare” ghiaccio ardente e cioè il caldo riverbero luminoso della neve. È chiaro che, oltre ad essere pure questa una forzatura, in questo caso del valore semantico di “diventare”, il v. 4 rischia così di parere quasi un doppione del 3, cosa certo non voluta dal poeta, soprattutto in una serie di elementi legati da polisindeto. Ci soccorre per il v. 4 ancora la cultura dell’epoca, che associava il ghiaccio al vetro: “freda neve” sarebbe metaforicamente (l’enigma si complica) un freddo vetro, dunque, inteso come lente che può generare calore concentrando la luce del sole. Interpretazione, questa, evidentemente obbligata appunto per evitare doppioni se al v. 3 si parla di riverbero della neve. Ma se al v. 3 si parla invece della folgore che diviene grandine (torniamo sui nostri passi: a questo punto la classe, già stanca, non ci vorrebbe più seguire, non vedendo l’utilità di questi andirivieni. Insomma, possibile non si sappia cosa c’è scritto?) non sussiste più il rischio del doppione e quindi proprio il v. 4 potrebbe significare il riverbero! Per ovviare al lieve senso di vertigine (soggettiva, senza dubbio) notiamo ora, grazie proprio a questo andirivieni, che nei primi emistichi della quartina si propone la coppia sostantivo – aggettivo o aggettivo – sostantivo, tranne che al v. 2 dove c’è però un aggettivo sostantivato (“lo scuro”) che “assorbe” in sé il sostantivo (fatto che, gettando – col rischio di perdere l’equilibrio – uno sguardo avanti, si ripete simmetrico al v. 6, il secondo della seconda quartina. Questo stabilisce una regolarità di nessi molto forte, e spinge a legare in “foco arzente” e non altrimenti. Ma potremmo metterci una mano e giurarlo?
Usciamo dalla prima quartina con i nostri dubbi, senza nemmeno aver compiuto una parafrasi certa ma semplicemente indicato delle vie, alcune più probabili di altre. Stranamente, chiarezza del dettato e chiarezza del significato paiono inversamente proporzionali: si va dal v. 1, dubbio nella funzione logico-sintattica di “A l’aire” (provenienza – agente – luogo) ma chiaro nel significato (pioggia a cielo sereno), al v. 4 talmente chiaro per noi nella formulazione da rendere una parafrasi impossibile più che inutile, ma divaricato quanto al significato tra due ipotesi ben diverse (lente - riverbero) date per enigma; in mezzo, il v. 2 col medesimo problema formale del v. 1 ma in più già un oscurarsi del significato (una probabile folgore, ben legata a ciò che segue – una meno probabile alba, isolata), e il v. 3 con un dubbio forse davvero peregrino che si insinua nella scorrevolezza della forma (il fuoco che, forzando la lettura ritmico-sintattica, diventa ghiaccio ardente invece del fuoco che diventa ghiaccio) e un analogo dubbio nell’enigma posto (riverbero o, più probabile, grandine). Si va, insomma, dalla banalità (se è lecito) al vero enigma, limpido e quasi indecifrabile, passando per gradazioni e commistioni intermedie. Non conforta veramente, perché sempre enigmatica, ritrovare un’immagine simile a quelle dei vv. 3 e 4 (e appunto formata da termini che nel nostro testo appartengono a immagini diverse) in Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido delle Colonne: “che fa lo foco nascere di neve” (v. 19), dove però l’evidenza del “foco” suggerisce meglio quello generato da una lente che un semplice riverbero. Con questo riferimento, introduciamo un’altra procedura, esterna, quella dei raffronti intertestuali – storicamente motivati – con “fenomeni” (i testi) paragonabili col nostro.
Abbiamo capito però che non si può tentare una sensata parafrasi del testo senza confrontarsi con la sua struttura sintattica, semantica e ritmica, senza seguire le simmetrie che il testo propone (ploggia – scuro, clarore – foco, ghiaccia – freda neve) e senza riportarsi al sistema della cultura cui appartiene. Insomma, senza spiegare, ipotizzare, connettere e dunque interpretare.
Certo, respiriamo con la seconda quartina, evidente per significati e nessi. Vediamo tuttavia che la catena che finora ha, come si è notato, legato explicit di un verso ed incipit del successivo, al v. 6 si interrompe (“dolzore” è in antitesi con “guerrieri”) nel momento in cui passa dall’ambito percettivo a quello di sentimenti e relazioni. Forse solo, appunto, per segnare una discontinuità. Anche se, a guardarli con maggiore attenzione, i due guerrieri-nemici che stanno in pace ci ricordano le antitesi apparenti, composte in ogni verso nel farsi dei fenomeni naturali, dei vv. 1-4; e l’errore (fraintendimento, divisione e allontanarsi) che nasce tra due amici (cosa non rara, anzi di nuovo quasi banale, benché dolorosa) pare il nostro scoprire (o credere di scoprire) sotto la simmetria di termini analoghi distesa tra versi consecutivi, differenze sostanziali.
A questo punto, abbandoniamo l’illusione (nata da un’esigenza di ordine e di linearità “discreta”) di poter procedere separando rigidamente i passi da fare, come l’altra illusione di arrivare a certezze indiscutibili, e tracciamo comunque la nostra strada, cercando anzi la conferma di ogni osservazione in dati riscontrabili anche ad altri livelli del testo, e accontentandoci talvolta di fattori di probabilità.
Dopo la “rottura” sintattica e semantica tra i vv. 6 e 7, provvisoria e parziale (i versi dal 2 al 9 sono di fatto legati da polisindeto in anafora; inoltre, i guerrieri sono un amaro che si fa dolce, gli amici un dolce che si fa amaro, concretizzando e umanizzando la percettività del distico precedente), giunge la vera divisione interna del testo, già di per sé sempre frazionato, presentando strofe ed endecasillabi tutti sintatticamente autonomi, senza alcuna inarcatura. Ma il punto fermo che chiude il v. 8 prepara l’ultima anafora della congiunzione, una forte, enfatica ripresa stavolta associata all’anafora del predicato iniziale, quello che regge il riprodursi del sintagma ‘nome + infinito’ nelle due quartine: “Ed ho vista”. Lo stacco si avverte nel senso, nella sintassi e nel ritmo più che nell’interpunzione, ma tutto il verso parla di un’eccezionalità, quella di Amore posto al centro del testo, che sovrasta i fenomeni, le trasformazioni e gli enigmi precedenti (ma come parafraseremo “forte”? Potente, grande, difficile a credersi ... ricordando che rima con “morte”, dobbiamo anche intendere ‘difficile a sopportare’?). “Che era ferito, e mi guarì ferendo”. Pare l’ovvia parafrasi, con un unico dubbio: se “era” fosse un “(io) era” > io ero? Certo la “cosa più forte” è detta di Amore e non di Giacomo, ma cosa impedisce che l’autore sia passato rapidamente dal sentimento personificato al suo soggetto, essendo poi la ferita propria e quella di Amore la stessa ferita? E in effetti perché dire che Amore è ferito, se poi lo stesso Amore mi guarisce? Del resto, al v. 11 “ardea” è più chiaramente riferito a Giacomo, non avendo molto senso dire che ‘Amore ardeva del fuoco d’Amore’. Il significato di fondo non cambia, dunque, anche se il ricalco della parafrasi sull’originale è forse ingannevole; ma il verso resta enigma, come accadeva nella prima quartina. Lo resta anche ricorrendo al mito della lancia di Peleo, che con un secondo colpo guarisce la ferita inferta: questo significherebbe, applicato alla lettera come chiave di lettura, che per guarire dalla ferita d’amore per una donna Giacomo è stato ferito una seconda volta (“ferendo (me)”) e cioè un nuovo amore ha sostituito il primo! Perché altrimenti (rilettura del mito) ad essere ferita è la donna amata, che così “guarisce” Giacomo dal dolore di un amore non corrisposto, pareggiando le sorti. Come decidere? Stavolta il problema non è di poco conto, anche perché ricade sul verso successivo, e viceversa. La novità formale del v. 10 sta nel superamento delle antitesi di elementi legati da paradossale rapporto di trasformazione-derivazione: l’amore è autosufficiente, le trasformazioni interne alle antitesi avvengono nell’amore e sono, meglio, duplicazioni, rispecchiamenti, come dice il poliptoto ‘feruto – ferendo’. Per cercare conferme e simmetrie con questo gioco di specchi, sentiamo che questo essere paradossalmente interni all’amore sarebbe accentuato e totale se ne fosse protagonista sempre Giacomo (guarirsi ferendosi), pur mutando l’oggetto dell’amore; più relativo e relazionale se il secondo soggetto ferito fosse la donna, pur rimanendo interni ad un unico rapporto amoroso.
Ma non è sufficiente, non ci aiuta. Dobbiamo uscire, per dir così, dall’intrico del testo, e vederlo nel contesto del genere e della produzione della “scuola” in cui riconosciamo la posizione di Giacomo. Diciamo allora che sarebbe veramente straordinario ed eretico che un poeta amoroso, innovatore ma anche fedele ai modelli provenzali e quindi al motivo del servizio d’amore fondato sulla venerazione e sottomissione nei confronti della dama, si permettesse di distogliersi da lei innamorandosi di un’altra! L’amore vero è quello che “stringe con furore” (Giacomo, Amor è uno desio che vien da core, v. 7), e avvolge sempre l’innamorato come fuoco invincibile: “ma Amor m’ha allumato/di fiamma che m’abraccia”, fiamma “und’eo so’ involto”, in Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido delle Colonne, vv. 13-14 e 31. Inoltre, l’idea che l’amore vada corrisposto e che sia ingiusto e sleale che la donna non subisca la medesima ferita dell’uomo (cosa che può accadere, ma appunto accade all’interno di un rapporto, senza uscirne), è concetto condiviso e diffuso (vedi dello stesso Giacomo il sonetto Chi non avesse mai veduto foco, v.9, “Che s’aprendesse in voi, madonna mia,” e in generale la canzone Madonna, dir vo voglio; vedi Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, dove incontriamo ancora la lancia di Peleo: “Ma si quistu putissi adiviniri,/ch’Amori la ferissi di la lanza/chi mi fer’e mi lanza,/ben crederia guarir di miei doluri,/ca sintiramu engualimenti arduri.”, vv.44-48, risolvendo forse il nostro problema di comprensione del v.10 di Giacomo). In conclusione, v. 10, e di conseguenza 11: “che ero ferito, e mi guarì ferendo(la); / il fuoco di cui ardevo spense col fuoco”, fuoco quest’ultimo che, chiudendo nel fuoco e nuovamente in poliptoto il verso, si accende nella donna.
Perché – seguendo una logica forse troppo puntigliosa – il secondo fuoco spegne il primo, se ora l’amore è corrisposto? Forse lo attutisce soltanto, o ne spegne il dolore soltanto ... non convince. Dovremmo forse ricrederci sul significato dei due versi precedenti? Da fuoco a fuoco, non capiamo qual è la vera immagine riflessa da questi specchi, trovandoci presi fra l’altro nella parte del testo in cui si accentua, si avverte un precipitare drammatico. Seguiamolo.
Non serve parafrasi per il chiarissimo e oscurissimo v. 12 (cfr. v. 4): dobbiamo solo capire quale vita Amore ha dato al poeta, e quindi quale morte ne è derivata.
La terzina finale si apre con un sostantivo seguito da relativa (“La vita che”), struttura che ripropone e varia quella del v.11 (“lo foco donde”), perché ora il sostantivo è soggetto e non oggetto, salvo farsi oggetto come dono di un vicinissimo passato nella relativa (“che mi dè”) che al v. precedente aveva valore causale. Notiamo di passaggio che la vicinanza immediata delle due forme verbali “dè fue”, che trasformandosi l’una nell’altra stringono in chiasmo e antitesi il verso (vita data > fu morte), ripropone l’identica vicinanza di “ardea stutò” costituendo coi due verbi superiori un chiasmo interno ai versi (ardere – spegnere fuoco mortale = vita data > fu la mia morte); simile struttura chiastica, più dilatata perché ora utilizza due forme verbali più distanti (“mi stinse, ora ne ‘ncendo”), pare riproporsi tra v. 11 e v. 13 (ardea – stutò = stinse – ‘ncendo), e da qui con una diffusione estrema che ne è anche vanificazione (il “non” a negare la quiete come scampo dall’amore) fino al v. 14 (stinse – ‘ncendo = mi trasse Amor = non trovo loco).
Torniamo ai vv. 11-12, per capire il significato del 12. L’adiacenza di forme verbali al centro dei due versi è contenuta, in ogni verso, da un chiasmo grammaticale tra sostantivo e verbo e semantico tra vita e morte (foco – ardea = stutò – foco; vita – dè – fue –morte). A contenere poi il chiasmo interno tra forme verbali sopra indicato c’è anche quello esterno, tra gli estremi dei due versi, non immediatamente visibile, ‘foco – foco = vita > morte’: il primo fuoco arde in Giacomo e lo consuma; il secondo fuoco, forse nella donna, compensa il primo e cioè dà vita, ma questa stessa vita ridata (l’amore corrisposto?) provoca la morte perché genera un più esteso incendio. Tale incendio non è però altro che, rinnovato, l’antico fuoco, che si credeva attutito o addirittura estinto (“lo foco che mi stinse”). Pensiamo, per un termine di confronto nella produzione di Giacomo, a quanto si dice del cuore ai vv. 7-8 di Madonna, dir vo voglio: “che vive quando more/per bene amare, e teneselo a vita.” Ma a dire il vero, tornando all’interno del testo, questo primo emistichio del v. 13, perfettamente simmetrico a quello del v.12 (“lo foco che mi stinse”, “La vita che mi dè”) e in anafora col v. 11 (“lo foco”), presenta un duplice lettura sintattica: a) il fuoco che (Amore) a mio vantaggio estinse, b) il fuoco che estinse me. Abbiamo appena utilizzato, per capire questo giro di versi, la lettura a), ma la b) col “che” soggetto e il “mi” oggetto si legherebbe per semantica al secondo emistichio del v. precedente (e se l’espressione “fue la mia morte” si riferisse ad un prima e non ad un poi rispetto a “La vita che mi dè”? Cioè il fuoco d’amore, che ora ha dato vita, era stato la mia morte, e infatti “mi stinse” ...). In ogni caso, unica consolazione, a) e b) parlano sempre dello stesso fuoco, quello che ardeva solitario nel poeta. Ma ora, sollecitati dall’aver visto che qualcosa può essere sottinteso (Amore, in a) ) oltre che dal legame fonetico e semantico di stutò/stinse, di per sé non dirimente, vediamo una terza lettura: c) il nuovo fuoco che a mio vantaggio estinse il fuoco precedente (compl. oggetto sottinteso). Dovremmo tornare, ancora una volta, indietro, riprendere ipotesi già scartate? Invece, per questo verso 12, ci fermiamo qui, con l’idea di aver presentato ipotesi in ordine di probabilità decrescente, ascoltando, è vero, più il nostro orecchio, che cerca una naturalità della lettura e una immediata riconoscibilità del significato, che una lectio difficilior sintattica. Ciò che rimane chiaro, è il restare di Giacomo preda del fuoco d’amore, morendo e vivendo insieme: ancora in Madonna, dir vo voglio, “Foc’aio al cor non credo mai si stingua;/anzi si pur alluma://perché non mi consuma?/La salamandra audivi/che ‘nfra lo foco vivi – stando sana;” (vv. 24-28).
Per l’ultimo verso, accenniamo solo alle varianti testuali di Segre e Sanguineti, citate in nota, che vedrebbero una totale identificazione, assunzione del poeta nell’amore e nel suo fuoco (interessante quella di Segre, che apre il verso con “d’amor mi trasse”, facendo forse pensare alla fine di un amore); mentre se restiamo a “ché sì mi trasse Amor, non trovo loco”, l’apparente anafora del “ché” causale coi “che” relativi dei due versi precedenti e con quello dichiarativo che apre il v. 10, seguita dal “sì” (così), che riassume in sé la vicenda paradossale descritta dai vv. 10-13, e dalla terza occorrenza del pronominale “mi” (quarta, col “sanòmi” del v.10), preparano le conclusioni: al centro è Amore (incornicia in identica posizione le due terzine), che ha portato con violenza (il significato di “trasse” incrementato dall’allitterazione con “trovo”) tra questi estremi il poeta, privandolo di qualsiasi quiete.
Brevemente, ora, dobbiamo guardare il testo più dall’alto e nell’insieme. Tra le cose dette e nate dal solco della parafrasi, si sono rilevati due meccanismi generativi di significati e immagini ulteriori: le antitesi interne ai singoli versi, che in realtà fissano i poli di una trasformazione paradossale, enigma che va inteso (claro > ploggia); il legame di omogeneità, chiaro fino al v.6, ripreso tra 7 e 8, assai più problematico nella parte finale, tra explicit di un verso/incipit del successivo (a partire da ploggia/scuro). Ma la seconda serie, quella che lega due versi, si intreccia con la prima, perché nel momento in cui nel secondo verso dall’elemento o polo incipitario si produce un’immagine opposta (clarore, fine v. 2), questa a ritroso si richiama a quella incipitaria del primo verso, strutturando cioè un chiasmo (claro – ploggia = scuro – clarore). Un dinamismo chiastico l’abbiamo rilevato in precedenza nei versi finali, ma a partire dai loro termini centrali. Ora vediamo come tale dinamismo si annunci intenso fin dall’inizio, aggiungendo al chiasmo semantico e chiaroscurale sopra indicato un altro chiasmo, grammaticale e in parte ancora semantico, che si sviluppa tra i secondi emistichi di quei primi due versi da un “lato” del chiasmo più ampio: ‘ploggia – dare = rendere – clarore’. La struttura generale è dunque: claro – ploggia (dare) = scuro – (rendere) clarore, e cioè A – B (x) = B – (x) A. Analogo fenomeno si svolge nel distico seguente, ma incrementandosi con un chiasmo grammaticale anche tra i primi emistichi (foco – arzente = freda – neve ==> struttura generale: A (a) – B (x) = (b) B – (x) A, dove le maiuscole indicano i sostantivi, le rispettive minuscole gli aggettivi e le due ‘x’ i predicati, scusandoci per simili velleità ‘algebriche’) e in più la simmetria, elegantemente variata dalla paronomasia nel suono e nel significato, di ‘rendere clarore/rendere calore’ . Nel primo distico della seconda quartina permane solo il chiasmo ‘esterno’, retto da antitesi, figura etimologica e dall’alternanza grammaticale (dolze cose – molto amareare = de l’amare – rendere dolzore); nel secondo distico, antitesi guidata anche dai suoni ora aspri ora dolci, tra i primi emistichi simmetria e tra i secondi emistichi nuovamente un chiasmo ‘interno’: ‘dui guerrieri – in pace stare = dui amici – nascereci errore’.
Il verso 9 sfugge a questo intrecciarsi e contenersi di dinamismi, ma come una pausa centrale (strutturalmente legata all’inizio del testo: ‘ho vista ... ho vista’) prepara quelli finali rilanciando il movimento attraverso il poliptoto e l’antitesi del v. 10 (‘feruto – sanòmi ferendo’). Sui versi finali, non vogliamo aggiungere nulla a quanto già detto.
Abbiamo, sostanzialmente, percorso il testo due volte, con sguardi diversi, fermandoci spesso a osservare e confrontare indietro e avanti. Abbiamo cercato, coi nostri strumenti e con la precisione che siamo in grado di avere, di essere ‘scientifici’? Forse, ma così abbiamo, con la classe e in parte con noi stessi, tradito l’idea di scientificità come visibilità, condivisibilità, verificabilità (secondo manifesta coerenza interna e aderenza al testo) dei procedimenti, perché il nostro discorso sul testo si è fatto troppo pesante e complesso rispetto al testo stesso. Certo anche per un difetto di chiarezza ordinativa ed esplicativa, chiarezza che però riteniamo la scrittura possa avere non solo per virtù di stile, ma se e quando assume in sé delle ipotesi nate in precedenza, e cioè fa precedere all’analisi quello che è già il risultato di una teoria.
In realtà, non abbiamo fatto il passo finale, rivolgere un ultimo sguardo al sonetto di Giacomo, cercare una strada principale del prodursi dell’intreccio di forme dell’espressione e del contenuto. Cerchiamo di fare ora ciò che gli studenti preferirebbero si facesse all’inizio, e cioè spiegare. Ci preoccupa una cosa: il metamorfismo delle immagini, che scorre attraverso antitesi confini di verso e incroci, pare contraddetto dall’essere ogni verso e ogni strofe bloccata non solo dalla convenzione moderna della punteggiatura, ma da vere pause semantico-sintattico-ritmiche. Frammentazione, staticità? Ma ciò che abbiamo rilevato per singoli aspetti, il comporsi di un processo da/tra elementi contraddittori, perché non potrebbe valere per l’insieme (si ricordi quanto ipotizzato sul senso dei vv. 7-8), esserne cifra stilistica segreta (e insieme evidente, come un enigma) o modello immanente? In altre parole, la paratassi frammentata e slegata non produce separazione, ma una incalzante sequenza, rilanciata con effetto tensivo proprio dai ‘tagli’ di fine verso, guidata in superficie dal polisindeto della congiunzione e in profondità dai fenomeni analizzati sopra, riassumibili nella opposizione/scambio di due campi semantici (chiaro – fuoco – calore – dolce - pace – vita ≈ scuro – ghiaccio – freddo – amaro – guerra – morte). A reggere con molteplici occorrenze, tra inizio e conclusione, le fila del processo, è l’ardore del fuoco della vita e della morte. Dichiariamo ora, in via definitiva per quanto concerne lo spazio di questa lettura, il senso del testo.
Elementi antitetici tratti dal mondo della natura o da quello dei sentimenti e delle relazioni umane, posti in impossibili rapporti e reciproche trasformazioni, ognuna legata alla successiva dall’abbraccio del chiasmo (grammaticale o semantico) che genera immagini simili alle prime ma in ordine invertito. A portare il “foco” d’amore – a farlo fluire come acqua – attraverso le varie figure e a farlo sopravvivere al suo morire sono proprio le trasformazioni guidate dalla struttura dinamica del chiasmo, così che ambiti tra sé diversi si leghino e fondano: attraverso questo fuoco “alchemico” l’esperienza ritrova la sua unità dialettica, composta di contraddizioni, e l’impossibile continua ad accadere nel tormentato mondo umano lasciando intatto lo stupore della vitalità e della passione. Di fronte a ciò, l’unica risposta è una accettazione dai connotati forse tragici, forse rassegnati, accettazione che però è essa stessa parte del processo generale, anzi un suo acme in un crescendo ritmico e in un compiersi del senso: i tre concetti-immagini conclusivi, posti nei secondi emistichi della seconda terzina, parlano di un Giacomo bruciato e avvolto da un fuoco mortale, cui non può sfuggire. Del resto, anche in un testo più accessibile e “medio”, la canzonetta Meravigliosamente, chi cerca di reprimere e nascondere il fuoco lo alimenta, “com’om che ten lo foco/ a lo suo seno ascoso,/ e quando più lo ‘nvoglia,/allora arde più loco” (vv. 29-32), con immagine di ascendenza provenzale e, in origine, ovidiana.
Dunque, l’instabilità, il movimento e mutamento continuo che torna sempre su se stesso è processo generativo sia delle forme testuali che dei sentimenti: entrambi denunciano, con la loro frequenza e complessità crescente, un’attitudine, si vorrebbe dire, ossessivo-compulsiva sia nell’uso delle tecniche retoriche sia nei comportamenti amorosi. La fedeltà al sentimento e alla sua tematizzazione poetica si traduce, così, in una singolarità e contraddittorietà psicologica che sembra superare, per intensità, tanto i modelli quanto l’elaborazione di altri siciliani: in Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido delle Colonne l’acqua non muta natura (“non cangerea natura”, v. 3) per il contatto col fuoco, perché uno dei due elementi deve invece per forza cedere totalmente all’altro (e così il poeta, che era “aigua fredda” senza Amore, rischia ora di esserne totalmente consunto); in Sei anni ho travagliato di Mazzeo di Ricco, lo “fantin” crede “pigliar lo sol ne l’agua splendiente” (v. 14), ma il sole non si trasfonde nell’acqua né è presente in essa (ed è così imprendibile, come la donna oggetto d’amore). Ad attendere, a lunga distanza, questa drammaticità per svilupparla e radicalizzarla c’è, non Guinizzelli (pure per lui – Al cor gentil rempaira sempre amore – acqua e fuoco si scontrano senza confondersi né scambiarsi) con il suo razionalismo incline alla metafisica, ma l’averroismo di Cavalcanti con la sua materialità oscura. Un singolo elemento figurativo, quello del fuoco d’amore, presente in molti altri testi di Giacomo e, come si è visto, degli altri siciliani, torna forse, transcodificato dall’eccesso d’amore a quello della conoscenza intellettuale, nel fuoco dell’ingegno ingannatore che avvolge l’Ulisse di Dante: “catun si fascia di quel ch’elli è inceso” (Inf. XXVI, v. 48).
Un testo insieme limpido, dalle immagini vivide, dotate di “clarore”, e oscuro, talora indecidibile, perché oscuro è l’enigma dell’amore. L’oscurità, cui si giunge attratti dal miraggio della chiarezza, alimenta la nostra ricerca, i nuovi enigmi – speriamo involontari – in cui si avvolge l’analisi.
Certo, un percorso così ampio su un singolo testo non è quello che realmente potrebbe svolgersi in una classe; ma l’abbiamo presentato così per chiarire a noi stessi i presupposti di metodo, per verificare la percorribilità oggettiva di alcune strade attraverso il testo e la sostanza di alcune affermazioni che altrimenti sarebbero apparse pregiudiziali. In classe, sarebbe preferibile, saltando o accennando molti dati e passaggi, porre agli studenti alcune domande-chiave, col significato di potenzialità analitico-interpretative da sviluppare: che forma hanno i singoli versi, e il rapporto tra versi? Si può individuare un meccanismo genetico di queste forme e rapporti? Ci sono strutture e immagini più frequenti? Si può intuire un dinamismo di fondo che abbia generato il testo? Perché il testo assume, nel complesso, la forma dell’enigma? E altre domande ancora.

Se dovessimo fare un rapido e di per sé insensato (una specie di lista della spesa) elenco dei principali paradigmi teorico-critici che si sono succeduti o si sono confrontati all’incirca nell’ultimo secolo e recentemente, ci troveremmo di fronte ad un’affascinante e imbarazzante ricchezza di prospettive: critica storicista, marxista, stilistica, psicanalitica, strutturalista-semiologica, decostruzionista, neoermeneutica ... e chissà cosa dimentichiamo o ignoriamo.

Ma quale teoria, approccio, metodo in classe? Come decidere, e cosa trasmettere agli studenti, se dovesse emergere che certo molti ma con completezza nessuno di questi paradigmi ricercano o presentano garanzie di scientificità? Forse dovremmo seguire un eclettismo che con un fiducioso taglio (neo)ermeneutico, usi come strumenti conoscenze storico-filologiche, analisi socioeconomiche, della semiologia e della psicanalisi, (della stilistica no, troppo vecchia!), e abbia il disincanto decostruzionista come pars destruens di sottofondo? Al di là delle battute, poco divertenti, che mascherano male un nostro vero imbarazzo, crediamo che lo strumento principale che abbiamo usato per illustrare con oggettività, per quanto possibile, il nostro “campione da laboratorio” e che di fatto usiamo in classe e usano i libri di testo sia la metodologia e strumentazione semiologica. In questa confluiscono e concordano, sia pure mutati, il lessico e le tecniche delle retoriche antiche e moderne, in questa si risolve più compiutamente nella ricerca di un modello formale organicamente immanente al testo l’idea della critica stilistica di singole cifre dello stile da rintracciare, da questa ci riconnettiamo a “serie” storiche e culturali che stanno all’esterno del testo e lo attraversano. Ma di fatto intrecciamo a questo approccio: una sfiducia in pretese troppo categoriche e assolute di descrittività e spiegabilità, che credano individuare in modo univoco e “geometrico” il funzionamento e il senso del testo; una ricerca non della psicologia dell’autore, ma di una sua figura più inscritta nel testo che realmente esterna, a partire da fatti di stile come da una simbologia testuale o talora da un ‘non detto’ o da lapsus e tic linguistici; una fiducia e un ascolto di altre voci oltre la nostra, sapendo che legittimamente i lettori fanno o almeno attivano una parte dei significati del testo, unico modo per tali significati di essere intesi e di costituire un orizzonte comune (il testo) ad autore e lettori. Non era, in fondo, del tutto una battuta. Servirebbe una metateoria o una nuova teoria critica, a detta di molti impossibile e nemmeno desiderabile? Non siamo all’altezza di tale quesito, ma possiamo avere comunque una nostra idea - tornando all’assunto iniziale – di cosa possa essere scientifico nella interpretazione del testo. Soprattutto in un’epoca della cultura in cui, a quanto ci risulta, i concetti, ad esempio, di caos e probabilità e, già dagli inizi del ‘900, l’idea che la presenza dell’osservatore e le procedure di osservazione possano modificare il campo d’osservazione o qualche sua grandezza, e nuove metodologie di ricerca ed esplicative a questi concetti collegate, sono ormai patrimonio consolidato della scienza. In questo senso la comprensione di un fenomeno non pretende di presentarsi come esplicazione esaustiva, ma come cognizione della complessità che viene accettata e come tale considerata nel suo insieme e in tutte le sue variabili (appunto “comprensione”, cum – prehendo). Di fronte alla complessità dinamica, mutevole e sfuggente del mondo anche lo scienziato rivendica doti di intuizione e un atteggiamento simpatetico col quadro osservato.
O forse, senza rischiare di maneggiare con superficialità concetti che non sono di nostro dominio, ci basterebbe dire che di fronte al testo dovremmo avere lo stesso atteggiamento (non, chiaramente, per motivazioni di ordine religioso o metafisico o mistico) del Dante scrittore del Paradiso, che si muove continuamente tra le conquiste del suo stupefacente rigore razionale e lo stimolo dell’ineffabilità di ciò che non potendo essere totalmente capito né ricordato né detto perché “oltraggio” verso i nostri limiti, pure in questo conflitto lascia in noi una traccia di senso e di passione, un’ombra della visione che ci ha catturato: “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio./Qual è colüi che sognando vede,/che dopo ‘l sogno la passione impressa/rimane, e l’altro a la mente non riede,/cotal son io, ché quasi tutta cessa/mia visïone, e ancor mi distilla/nel core il dolce che nacque da essa./Così la neve al sol si disigilla;/così al vento ne le foglie levi/si perdea la sentenza di Sibilla.” e “ne la profonda e chiara sussistenza/de l’alto lume parvermi tre giri/di tre colori e d’una contenenza;/e l’un da l’altro come iri da iri/parea reflesso, e ‘l terzo parea foco/che quinci e quindi igualmente si spiri.” (Par. XXXIII, 55-66 e 115-120)


In sintesi presentiamo ora quelli che ci sono stati proposti come criteri e garanzie di scientificità generalmente validi, e quindi da sottoscrivere dimostrandosene degni sul campo o (speriamo non sia così) di cui dichiararsi non all’altezza per restarsene confinati nell’improvvisazione empirica, nell’irrazionalità, nelle metafisiche con le loro figlie ispirazione e divinazione.

- approccio sistemico
- corretta impostazione della quaestio
- pertinenza, diligenza, specificità del metodo
- rigore processuale e argomentativo, in accordo con lo statuto epistemologico specifico
- acribia e disincanto analitico
- sensibilità estetica
- dialettica tra significato/senso, individuale/universale, parte/intero, causalità/finalità/eterogenesi dei fini, contestualizzazione/individualizzazione, analisi/sintesi, deduzione/induzione/abduzione (ragionamento verosimile, fondato su premessa minore incerta)
- capacità di discernere ipotesi e percorsi risolutivi
- ottica transrazionale
- attitudine poietica
- disponibilità al confronto

Mentre in generale concordiamo, vorremmo segnare alcuni punti interrogativi: se “sistemico” significa che l’attenzione va posta all’insieme del testo, al dinamismo reciproco di tutti i suoi aspetti e connessioni che ne fanno un sistema orientato ad un’area di senso, d’accordo; se significa invece una data e invariabile sistematicità di un metodo fondato su un a priori teorico (questo ci induce a pensare anche l’espressione “in accordo con lo statuto epistemologico”, evidentemente preesistente), abbiamo forti dubbi. Ci chiediamo poi l’esatto significato, in questo contesto, della “diligenza”, più generica rispetto a rigore e acribìa (precisione metodica), ma forse da intendere etimologicamente come attaccamento appassionato ad un oggetto di studio, tale da indurre a non trascurare alcun aspetto di esso (a meno che non si intendesse che un metodo, una volta assunto, va applicato “diligentemente”). La “sensibilità estetica”, d’altra parte, all’interno di un discorso che ricerca una propria scientificità, non sappiamo proprio cosa sia, se non un fatto squisitamente a-scientifico come la capacità non solo di percepire ma insieme di giudicare e nominare il bello e il brutto grazie ad un istinto o intuizione (“sensibilità”) in assenza di una qualsiasi consapevolezza razionale e fondata di cosa significhi “bello” e “brutto”: dote misteriosa, certo di origine divina, che fa alcuni, e non altri, poeti o critici o esteti (ma non vorremmo, sarebbe quasi paradossale, peccare di razionalismo). Immaginiamo, ma potremmo errare, che “transrazionale” significhi “che attraversa diverse ragioni”, secondo ponti logico-discorsivi (o forse estetico-emozionali?) di valenza universale tali da unificare ambiti specifici come, per esempio, le scienze esatte e la critica letteraria o, cosa che avviene nei fatti e si può definire “eclettismo critico”, diverse scuole della critica letteraria: se così fosse, al di là della formulazione leggermente oscura e assai poetica, l’idea ci pare utile e pertinente al nostro scopo. Così come concordiamo con un’attitudine “poietica”, cioè orientata al fare, a costruire concreti e condivisibili percorsi e situazioni di comprensione, scoperta, comunicazione, anche a prezzo di dover ogni volta “fare” una parte del senso del testo di cui si discute e magari entrare talmente in esso da farsene talora possedere nelle stesse strutture del proprio discorso. E al prezzo di vivere in una condizione perenne di “disincanto analitico”, nella quale è normale affidarsi a ragionamenti in cui spesso almeno una premessa è incerta.
Ma proprio per questo, perché nel fare ci si sporca sempre le mani con una qualche materia (vedi il linguaggio, vedi la poesia, vedi la storia) che sarà indubbiamente “razionale” ma dinamica, plurale e complessa, e per questo ci si presenterà sempre sotto l’aspetto, la facies del caso e dell’insondabile, pensiamo che da qualche parte nella dialettica di cause e fini veri o supposti andrebbe inserita l’idea di casualità della scrittura e della interpretazione, a suggerire una sorta di limite intrinseco (non si può e forse non si deve capire oltre, non si può pretendere di possedere il senso in via definitiva ed esatta) e insieme di alone di possibilità (lasciarsi guidare da ciò che ci appare come caso) proprio del testo e della nostra “comprensione” (vedi sopra) di esso .
Per chiarezza, e anche per riferirsi ai fondamenti della questione: se già l’idea che un segno linguistico esprima un significato (denotazione) è “comprensibile” solo all’interno di un’evoluzione storico-culturale di quel segno nell’uso di chi comunica in un sistema-lingua a sua volta in continua evoluzione; e se questo segno col suo significato, per sua natura dotato di spessore, sfumature e in realtà mutevole entra nel testo in un gioco di combinazione plurale e simultaneo con altri segni (sia colla loro natura corporea o significante sia con quella mentale o significato), potenziando e variando indefinitamente il suo valore anche secondo l’angolo di incidenza e la penetrazione dello sguardo di chi esperisce (rivive) il testo, allora quale “scienza” può fornire ipotesi così adeguate e insieme flessibili per tale mutevolezza e relazione (relatività)? In un’accezione schematica di ciò che può essere “scienza”, la risposta è ”nessuna”, e quindi ammettiamo la nostra a-scientificità. Ma se scienza è prima di tutto confrontarsi col dubbio, affrontarlo scegliendo tra altre possibili una strada che, come tutte le strade da tracciare, in qualche modo cambierà il paesaggio che percorre (eppure molto del paesaggio, questo può paradossalmente consolare, resterà non visto) ma sarà anche percorsa da altri con o senza di noi, e infine accettare il limite (il testo stesso) del nostro conoscere: allora anche questa è scienza, o meglio è questa scienza.

Da parte nostra, diremmo che questi sono alcuni, non criteri, forse credenze ed esigenze, ma fondate sulla nostra limitata esperienza dei testi e della critica e sulla fiducia in entrambi:

- non la teoria, intesa come legge predittiva ed esplicativa, ma il paradigma: un esempio-modello secondo una logica critico-testuale, che opera perché consente il “vedere come si fa”, quindi ricade nell’esperienza da cui si generano altri paradigmi;
- la verificabilità o la falsificabilità di un approccio secondo i dati dell’esperienza (il testo e il suo contesto) e secondo gli ausili utilizzati (linguistica, storia della lingua, filologia, storia delle istituzioni retoriche, comparatistica, altre discipline o ambiti); il lettore-critico deve esibire e motivare dati, riferimenti e metodi, perché possa essere approvato o confutato il suo reperimento e utilizzo di conoscenze tendenzialmente certe dell’oggettività del testo;
- va esibita, certo non negata, la soggettività del proprio approccio, del proprio punto di vista “oggettivamente soggettivo” e “soggettivamente oggettivo”, soggettività valida se internamente coerente (anche grazie all’ausilio di specifiche scuole critiche) e fondata sulle conoscenze certe o probabili, diretta alla individuazione dei significati, dei rapporti tra le forme, del senso del testo;
- la condivisibilità delle procedure in un’idea di scienza come democrazia: il metodo non va sacralizzato (non è la verità) ma reso funzionale all’autonomia critica degli studenti;
- l’autonomia critica, e la scoperta-ricreazione di un senso del testo si realizzano nell’atto comunicativo del dialogo ermeneutico e della scrittura critico-interpretativa;
- la polisemanticità del testo in rapporto a) alla rete di strade e incroci e sovrapposizioni/interferenze di forme e quindi di significati che lo compone, percorribile in modi tendenzialmente infiniti, b) alla conseguente pluralità degli interpreti e delle letture (ogni lettore con la sua ricezione e il suo sguardo vede e attiva una nuova parte del senso del testo), da cui deriva la necessità di un continuo confronto con le letture altrui, c) alla rete di rapporti intertestuali, sincronici e diacronici, nella quale il testo è nato e nella quale deve essere collocato per la sua comprensione;
- la fiducia nella coerenza di un’area plurale di significati/sensi globali, unitaria benché aperta, contro le derive aberranti della interpretazione, contro i dogmatismi, contro la negazione della riconoscibilità di un senso.

Chiudiamo ammettendo che il nostro percorso testuale e in parte intertestuale si è svolto utilizzando come fonte l’Antologia della poesia italiana a cura di C. Segre (Einaudi) e cioè un’edizione tascabile ed economica (quasi) a disposizione di qualsiasi studente, e nessuna articolata o specifica bibliografia critica da consultare e citare. Questo è giusto sminuisca la portata delle nostre analisi e affermazioni, che andrebbero diversamente motivate e verificate. D’altra parte, abbiamo dichiarato quanto c’era da dichiarare, e se c’è stato un metodo, speriamo sia visibile di per sé.

UNA SCUOLA DI POESIA

UNA SCUOLA DI POESIA?

1. Un pomeriggio ...
In un’aula del Liceo, verso le 15 di un pomeriggio di autunno, alcuni studenti e quello che, seduto in cattedra, parrebbe un insegnante. “Scusi, ma lei è il poeta che tiene il corso?” La domanda crea all’uomo (molto giovane) qualche, minimo, imbarazzo, superato con ironia. Il senso è “Sì, sono io il poeta, ma dovremo parlare anche di cosa questo significhi ...” ... e, certo, di come si possa definire poesia una poesia, verso un verso. Chi ha posto la domanda non voleva certo sollevare tali questioni! Tuttavia, è significativo che non appena si apre una delle porte che introducono nella casa della poesia, in qualunque luogo e tempo e con qualsivoglia interlocutore ciò avvenga, si tocca senza volerlo il mistero (un mistero del tutto quotidiano: quante sono lo poesie, quanti i poeti?) della sua sostanza. Vale la pena di ricordare in quale luogo di contraddizioni introduca quella porta, perché “La casa della poesia/non avrà mai porte” (Alda Merini, Aforismi e magie). Una casa totalmente aperta ed esposta, totalmente chiusa e impenetrabile.
Quella stessa mattina, in un’altra aula della scuola o forse nella stessa, quegli stessi studenti hanno assistito (non sempre “partecipato”) ad una lezione del docente di italiano su, poniamo, le Rime di Dante. Immaginiamo cosa può essere stato detto in tale lezione o nelle lezioni che l’hanno preceduta e qual è l’insieme di conoscenze, di competenze e di pratiche necessario per una comprensione profonda dell’oggetto: biografia, contesto, fonti e modelli, generi e forme, poetica, fasi interne, intertestualità, analisi dei testi, la critica ... e molto di più.
Ma se anche fossero, tali conoscenze e competenze, comunicate dal docente e comprese fino in fondo da ogni studente, e fossero poi legate all’apprendimento di un metodo di lavoro sul testo, alla formazione di una capacità di lettura e di interpretazione unitaria e più raffinata: cosa avrebbero fatto docente e studenti? Costruito la capacità di dare risposte razionali a un problema che è la poesia, che a sua volta, poesia per poesia, ne contiene innumerevoli altri. Problema dopo problema, risposta dopo risposta, in un’esponenziale connessione di problemi e di risposte.


2. Perché una “Scuola di Poesia”?
La diversità tra insegnamento curriculare della poesia e pratica laboratoriale sta certo in un “modo” diverso di educare e fare cultura: ma la diversità non è solo quella che divide la trasmissione delle conoscenze su un oggetto, la poesia, dall’esperienza diretta e pratica dell’oggetto di quelle conoscenze, come fosse semplicemente la differenza tra il dire e il fare, perché al contrario molto spesso a lezione si “fa” qualcosa attraversando i testi e anche in un laboratorio si insegna, si teorizza, si trasmettono nozioni; la differenza più profonda è forse tra l’idea di un problema, la letteratura, cui saper dare risposte e l’idea di non avere, alla fine di una ricerca, risposte definitive di fronte a un problema, a una richiesta più estesa e più profonda (che ci viene dalla nostra stessa esistenza nel mondo) se non quella della ricerca di un linguaggio-problema: la poesia. Che, forse anche in un laboratorio, ha un riflesso, magari difficilmente percepibile e sbiadito dal contesto di un’aula scolastica, della sua storica e ancora viva “aura” di assoluto, un assoluto che in quel contesto anzi ritrova un suo valore di assoluta fragilità.
Sulla strada di questa consapevolezza, crescendo congiuntamente ad essa, si dispongono le altre finalità di una scuola di poesia, che qui riassumiamo traendole dai progetti che negli anni si sono susseguiti:

• accrescimento e affinamento della conoscenza della poesia come prodotto, con i suoi aspetti formali e livelli di senso, e come procedimento artigianale fatto di tecniche precise e storicamente realizzate
• accrescimento e affinamento della capacità di leggere e comprendere la poesia cogliendone l’alto grado di formalizzazione e di semantizzazione, il valore estetico e l’implicazione culturale
• formazione della competenza necessaria a riconoscere nella storia della poesia e in particolare di quella italiana contemporanea delle fasi, degli esempi di procedimenti formali, degli autori e dei testi significativi per la propria esperienza di scrittura originale
• formazione della capacità di impostare, sviluppare, definire e quindi valutare testi in versi legati al proprio vissuto secondo caratteristiche e procedimenti formali precisi e consapevoli
• formazione di una capacità critica e di una consapevolezza rivolte al problema della natura e della funzione della poesia, in relazione soprattutto: col suo essere discorso che nasce e rientra, modificandoli, nel vissuto del soggetto e nella sua relazione col mondo e gli altri; con la sua natura di linguaggio “altro”, liberato dai conformismi e dalle strumentalità del linguaggio quotidiano

Prima di chiederci se e come tali finalità siano state raggiunte, dobbiamo insistere e chiarire come lo scopo della Scuola di Poesia non sia né meramente didattico (un di più o un diversificarsi di contenuti rispetto alle attività del mattino) o tecnico-pratico (un imparare a fare le cose in proprio invece che studiare quelle altrui) né anarchicamente creativo (un far nascere ex nihilo la poesia, come attività fantastica e liberatoria dal grigiore della routine scolastica), ma perlomeno tutte queste cose insieme, e non come una loro somma ma come prodotto e interazione: un portare all’esperienza in prima persona, sia pure scolastica e parziale, della poesia come arte (tèchne) tanto più vera rispetto alla nostra esistenza quanto più formalmente rigorosa, tanto più libera ed originale quanto più culturalmente consapevole, costruita dal lavoro sulla scrittura e su se stessi, di valore tanto più alto quanto più incerta, problematica e – ripetiamo – fragile nel suo essere.


3. Cronologia
La Scuola di Poesia (dall’a.s. 2004-2005 parte integrante del P.OF. del nostro istituto) non nasce con questo nome e con l’articolazione attuale delle sue attività, ma come attività unica, per alcuni anni a partire dal 1999, del Laboratorio di Poesia, gestito da Paolo Campoccia, un giovane poeta (già però in contatto con “maestri” come Mario Luzi e Franco Loi). In relazione ad un monte ore annuale passato nel giro di due anni da 10 a 22 e poi rimasto più o meno invariato (attualmente 20 ore ripartite in 10 incontri pomeridiani di 2 ore, solitamente nella prima parte dell’anno scolastico) fin dall’inizio il Laboratorio ha tenuto congiunte due esigenze, quella teorica e quella pratica, di anno in anno diversamente intrecciate, alla ricerca di una configurazione migliore: si è passati da un corso interamente gestito dal poeta/docente esterno all’alternanza di corsi divisi verticalmente, incontro per incontro (un’ora teorica e di esercizio gestita dal docente interno e l’ora successiva di applicazione creativa e di lavoro continuativo sui testi originali gestita dal docente esterno) e di corsi divisi orizzontalmente in due fasi successive (quella teorica e propedeutica iniziale affidata al docente interno e quella più propriamente laboratoriale e di scrittura, affidata al docente esterno). Attualmente si è tornati alla formula iniziale: le 20 ore nell’a.s. 2005-2006 e in quello precedente sono state interamente affidate al docente esterno che non ha però alternato in modo rigido teoria e pratica ma le ha mescolate e rese più omogenee e funzionali ad un discorso unitario da condurre sulla poesia, fatto di conquiste progressive e rielaborazioni.
A partire dall’a.s. 2003-2004 al primo laboratorio si sono aggiunti un Laboratorio di Traduzione dalla poesia inglese, gestito dal traduttore e docente universitario Domenico Pezzini, e l’anno successivo un Laboratorio di Traduzione dalla poesia tedesca, gestito dal docente, traduttore e poeta Lorenzo Gobbi. Entrambi questi laboratori di traduzione dalle lingue moderne propongono, con qualche variazione, 8 ore ripartite in 4 incontri pomeridiani di due ore ciascuno, nella fase centrale dell’anno uno e in quella finale l’altro.
Nell’a.s. 2001-2002 aveva già avuto luogo un’ulteriore esperienza laboratoriale, un Laboratorio della Canzone e della Ballata con l’autore e cantante Massimo Bubola, agganciato alla parte teorica e propedeutica del Laboratorio di Poesia: a causa di problemi che indicheremo, l’esperienza si è fermata al secondo incontro.
Breve laboratorio (2 incontri di 2 ore) proposto per un solo anno e quindi esperienza singola, difficilmente ripetibile, è quello gestito da docenti interni sulla “genesi e cura del testo” nell’anno 2004-2005, che ha utilizzato come materiale alcune poesie, allora ancora inedite, della poetessa Alda Merini.
Ma fin dal primo anno a questa attività laboratoriale si è affiancata l’esperienza degli incontri con gli autori, singole conferenze-letture poetiche con personaggi di rilievo non locale: nell’a.s. 1999-2000, il primo della Scuola, sono intervenuti in incontri pomeridiani la poetessa milanese Donatella Bisutti, il poeta, traduttore e docente universitario Roberto Sanesi, il poeta veronese Arnaldo Ederle. A partire dallo stesso anno, in due occasioni il poeta in dialetto milanese Franco Loi (nel 2000 e nel 2003) e in altre due occasioni il poeta e critico Edoardo Sanguineti (nel 2001 e nel 2004): si è trattato, anche per la rilevanza dei personaggi, di incontri mattutini in Aula Magna aperti all’adesione delle classi liceali.
Di queste presenze esterne la più incisiva per estensione e qualità è stata, ci pare, quella di Antonella Anedda, vincitrice del “Premio Montale” nel 2001 con Notti di pace occidentale. Nell’a.s. 2004-2005 un gruppo di docenti e un più ampio gruppo di studenti hanno realizzato con la poetessa, proveniente da Roma, un percorso di dialogo, di scrittura e di lettura concretizzatosi in due “sessioni” seminariali, la prima nell’arco di due giorni ad ottobre e la seconda di identica durata a febbraio (ma preparata da due incontri solo con docenti interni) col titolo complessivo “Le parole della poesia”.
Diversa esperienza, ma sempre centrata su un metodo dialogico e di confronto aperto sui testi, è quella della Giuria Popolare del premio di poesia “Lorenzo Montano”, bandito dalla rivista “Anterem”, dalla Società Letteraria e dalla Biblioteca Civica di Verona. Il premio, che nasce nella nostra città ma è di rilievo nazionale e anzi interessa, come la stessa diffusione della rivista, poeti e intellettuali di ambito internazionale, ha richiesto nel 2002 per la Sezione “Poesia singola” e dal 2003 per la Sezione “Opera edita” una giuria composta da lettori qualificati, parte della quale è formata da studenti di alcuni Licei veronesi, tra cui il nostro. Gli studenti leggono in gruppo, discutono e votano i libri finalisti, presentando poi pubblicamente un proprio elaborato critico durante la cerimonia di premiazione, nel corso della quale ascoltano la lettura di molti dei testi in concorso, detti dagli autori stessi o da attori. Questa pagina critica è dall’anno scorso in gara, in una sezione speciale del Premio, con quelle delle altre scuole: appunto nell’a.s. 2004-2005 i nostri studenti sono risultati vincitori.
Ultima, non per nascita ma perché si compie negli ultimi giorni dell’anno, fra le attività rispondenti ad un progetto definito è il “Premio di Poesia Liceo Maffei” cui partecipano gli studenti dell’istituto e che si sviluppa e si articola a partire da un unico concorso inizialmente proposto negli anni 2002-2003 e 2003-2004, “Scrivi sull’arte”; negli anni seguenti a questa prima sezione si affiancano quelle per la poesia singola, per il racconto singolo, per la traduzione poetica da una lingua moderna. La Festa della Poesia è il momento, a fine maggio, in cui vengono presentati in un fascicolo e letti al pubblico degli studenti e dei docenti i testi partecipanti e quelli vincitori oltre ai testi migliori usciti dai vari laboratori, accompagnati da brani musicali eseguiti da studenti e da altre forme di comunicazione artistica e di spettacolo.
Altre attività, non tuttavia previste in un progetto della Scuola di Poesia ma in un certo senso episodiche – il che non ne indica in alcun modo una qualità inferiore - si sono comunque svolte in diversi anni e in diversi momenti della vita scolastica (le Assemblee riunite, il Giorno della Memoria ...) grazie agli esperti esterni (ad es. Lorenzo Gobbi con le sue lezioni su Celan) o ai docenti interni (ad es. sulla poesia e sulla prosa del movimento Beat negli USA e del periodo corrispondente in Italia).

Segue un quadro in ordine cronologico delle attività:

I – a.s. 1999/2000
(Laboratorio di Poesia con Paolo Campoccia 10 ore. Conferenze: Donatella Bisutti 16.02.2000, Roberto Sanesi 23.02.2000, Arnaldo Ederle 01.03.2000; Franco Loi 02.02.2000)
II – a.s. 2000/2001
(Laboratorio di Poesia con docente interno/P. Campoccia 22 ore. Conferenze: Edoardo Sanguineti ____ )
III – a.s. 2001/2002
(Laboratorio di Poesia con docente interno 8 ore, P. Campoccia 12 ore o Laboratorio della Canzone e della Ballata con Massimo Bubola > solo due incontri. Giuria Popolare: sez. Poesia singola)
IV – a.s. 2002/2003
(Laboratorio di Poesia con docente interno/P. Campoccia 20 ore. Conferenze sulla poesia dialettale: Lorenzo Gobbi su Biagi Marin e Eugenio Tomiolo 08.04.2003, Franco Loi 09.04.2003; concorso interno “Scrivi sull’arte”. Giuria Popolare: sez. Opera edita, vincitore Ranchetti)
V – a.s. 2003/2004
(Laboratorio di Poesia con docente interno 8 ore, P. Campoccia 12 ore; Laboratorio di Traduzione dalla poesia inglese con Domenico Pezzini 6 ore su testi anonimi medievali, Shakespeare, Donne, Hopkins. Conferenze: Edoardo Sanguineti 03.03.2004; concorso interno “Scrivi sull’arte”. Giuria Popolare: sez. Opera edita, vincitrice Bedin)
VI – a.s. 2004/2005
(Laboratorio sulla “genesi e cura del testo” degli inediti di A.Merini, 4 ore a settembre. Laboratorio di Poesia con P. Campoccia 20 ore, Laboratorio di Traduzione dalla poesia tedesca con L.Gobbi 8 ore su Rilke, Laboratorio di Traduzione con D.Pezzini 8 ore su Shakespeare e Hopkins. Seminario “Le parole della poesia” con Antonella Anedda 9-10 ottobre e 17-18 febbraio 4gg./8 ore + 2 incontri preparatori 11-12 febbraio solo con docenti interni. Premio di Poesia. Giuria Popolare: sez. Opera edita, vincitore Ballarini, vincono per il saggio critico gli studenti del Liceo “Maffei”)
VII – a.s. 2005/2006
(Laboratorio di Poesia con P.Campoccia 20 ore, Laboratorio di Traduzione dalla poesia tedesca con L.Gobbi 8 ore su Celan, Laboratorio di Traduzione dalla poesia inglese con D.Pezzini 6 ore su Hopkins, D.Thomas, Eliot, Auden. Premio di Poesia. Giuria Popolare: sez. Opera edita, vincitore Zafferani)


4. Pratiche ed esiti, problemi e prospettive delle attività
Ritorniamo ora a parlare delle diverse attività, dando per acquisita la loro descrizione “esterna” ed entrando nel merito dell’azione svolta, delle sue modalità e della sua efficacia.
4.1. Laboratorio di poesia: quale prassi “diversa” da quella di una lezione mattutina?
I motivi per cui gli studenti si iscrivono ad un laboratorio di poesia, per quanto vari, sono al fondo riconducibili a questi: avere una conferma delle proprie abilità di scrittura e, addirittura, del proprio essere “poeta” (convinzione narcisistica, spesso inconsapevole, legata alla ricerca di identità – il che, sia detto per inciso, non esclude che si possa davvero essere poeti); entrare in una dimensione nuova, creativa, meno impersonale di quella “istituzionale” mattutina, dove la poesia verrà vissuta in maniera più pura; in questo senso, ed ecco il terzo motivo, agisce l’idea che in tale dimensione un clima di spontaneità creativa porti facilmente e direttamente alla scoperta o, appunto, alla conferma di una qualche vocazione. Ma più in generale, forse, il motivo è che si cerca nella poesia una risposta al proprio “essere nel mondo”, una risposta a sé e al mondo contemporaneamente.
Purtroppo per queste speranze, nella poesia non c’è nulla di facile, mentre troppo facili sono i versi carichi di sentimentalismo egocentrico o inquinati da una sorta di “poetichese” che si scrivono credendoli poesia. Ciò che in realtà si incontra nel laboratorio è sì il linguaggio della poesia, ma un linguaggio-problema (vedi supra § 2) cui accostarsi per gradi e che se pure conquistato in parte non concede allori. Lo stesso cliché (pseudo)romantico di poesia come “espressione diretta delle emozioni” è subito smentito: chi in poesia vuole esprimere la propria soggettività deve scegliere la strada dell’oggettivazione, del “parlare d’altro”, e la poesia deve casomai “commuovere” e cioè muovere insieme e a distanza la mente di chi la fa e di chi la accoglie, in un dialogo che nasce dalla solitudine della parola che chiede ascolto e cerca di coprire una lontananza mentre pare bastare a se stessa, legata, in un silenzio interiore, a tutti i suoni possibili delle altre parole, frasi, poesie e pensieri; parola assoluta e sempre in dubbio. Anche perché la poesia non parla direttamente ma indirettamente, per figura; ogni testo poetico è una figurazione e un volgersi altrove (tropo) per formare il riflesso di un senso non dicibile altrimenti. Scontata o semplice non è nemmeno la definizione di cos’è “verso”: un “segmento della catena parlata che si svolge come sequenza o frase musicale scandita dalla ricorrenza di accadimenti fonetico-ritmici (ictus) in certe posizioni, reciprocamente definite per tensione dinamica, e caratterizzata da un ‘colore’ dato da quantità sillabiche e timbro” o, citando Franco Loi (spesso soccorrono le parole dei poeti), la “durata ritmica del nesso suono/emozioni secondo un tempo interiore”.
C’è dunque una parte o, meglio, funzione del laboratorio, “teorica” o metapoetica, in cui si problematizzano alcuni atteggiamenti di fondo di chi partecipa al laboratorio. Già a partire da tale fase vengono proposti versi e poesie di poeti italiani: per vedere come si fa un verso e una poesia, e assorbire, attraverso una “logica testuale”, degli esempi-modello. Un’altra parte o funzione è, irrinunciabile, quella tecnica, in cui a essere esperite sono le forme e le tecniche del linguaggio poetico. Questi sono i presupposti della pratica vera e propria in cui gli studenti, partendo anche da singole immagini o versi o gruppi di versi scritti come esercizio formale, elaborano un testo originale legando le abilità acquisite ai contenuti del proprio vissuto e del proprio essere nel mondo. Qui, il rigore della forma e di un metodo compositivo aiuta a togliere dai contenuti profondi le incrostazioni di sentimentalismo egocentrico e di linguaggi posticci di cui si diceva. Infine, arrivare alla libertà di “lasciarsi dire” (ancora Loi) nel senso di dire/essere detti, al di là di regole e sintassi. Ma per accedere a quest’ultima fase o funzione bisogna, appunto, mettere in crisi preconcetti, apprendere tecniche, rifiutare il facile e lo scontato e ogni immagine preconfezionata: il che per alcuni può essere un ostacolo insormontabile.
Per quanto riguarda la parte teorica: concetti di metro, ritmo, verso; confronto tra metrica quantitativa, allitterativa, sillabico-accentuativa; uso dei piedi della metrica classica per l’analisi della metrica italiana; tipologie di verso tradizionali e loro analisi; la cesura, il confine di parola, la tensione fra gli ictus e l’identità/estensione formale del verso; le pause e il valore del “silenzio”; fenomeni di fine verso; l’evoluzione dalla metrica barbara al verso libero (con le sue diverse tipologie) e al verso novecentesco (ad es. atonale); evoluzione e ripartizione delle forme strofiche; le figure retoriche (concetto di figura; categorie; elenco analitico); la funzione poetica e la semantizzazione di ogni elemento formale del testo; la polisemia e la sovrapposizione dei livelli semantici; esempi formali della poetica di alcuni autori italiani considerati irrinunciabili (ad es. Dante e gli stilnovisti, Petrarca, Tasso, Leopardi, Pascoli, Campana, Ungaretti, Saba, Montale) e di alcuni autori italiani di metà e secondo Novecento (ad es. Caproni, Luzi).
La parte di apprendistato formale: esercizi metrici (riproduzione di schemi; passaggio da un metro all’altro; abbinamenti di versi secondo simmetria metrica o variazioni ed enantiometria); stesura di brevi sequenze di versi a tema secondo strutture strofiche semplici; calco sintattico di versi dati, tratti da testi di autori (mutano lessico e semantica), calco semantico (mutano lessico e sintassi), rovesciamento semantico (muta il lessico, sintassi analoga); esperienza del principio della coreferenza semantica (procedimenti diversi, ad es. rima, inarcatura, metafora, allitterazione, portano se usati congiuntamente al potenziamento del senso globale del testo).
La parte laboratoriale: identificato un tema, iniziare dall’immagine (solitamente una metafora) che ogni studente propone e che viene discussa e rielaborata; su di essa viene “detto” il verso, di cui si riconosce il ritmo, e ad essa vengono legate come in catena altre figure, a diversi livelli di senso. Il lavoro viene proseguito di incontro in incontro, fino a produrre un numero minimo ma significativo di testi. Altra via è partire da un verso iniziale di un testo d’autore, proseguendolo secondo un “ascolto” ritmico, fonetico e metaforico: in questo modo il verso iniziale rimane come “motto”, eco fatta propria della sensibilità di un autore. Una volta arrivati ad un grado apprezzabile di “rifinitura”, si cerca – pur coi tempi assai limitati di un laboratorio – di indurre al riconoscimento di un “tempo d’attesa” interiore, necessario per la rilettura del testo composto, per l’ascolto delle sue risonanze.
In quegli anni di corso in cui la parte teorica e di esercizio, gestita da un docente interno, precedeva con funzione propedeutica la parte laboratoriale vera e propria, a fare da cesura non selettiva ma come garanzia rispetto alla fase successiva, era un test sulle abilità compositive metrico-strofiche e sulla capacità di impiegare alcune figure-base (ad es. metafora e allitterazione).
Riportiamo due testi prodotti dagli studenti del Laboratorio nell’a.s. 2005-2006:

Il temporale rotola sull’Umbria,
giocando con i lampi, tra i campi
di nuvole, aggrappandosi alle gocce di
pioggia, fossero appigli, i fiori, per non cadere,
non durare il tempo di un attimo,
non durare poco,
quel poco che taglia come spada.

di Lorenza Cristanini Mion


La luna lava la mente
e le strade e le piazze
finalmente vuote. E si parlano,
libere dal giorno, innamorate;
e sorridono.
di Giorgio Fogliani

4.2. Laboratori di traduzione.
Sono stati in effetti frequentati, e con una certa ampiezza, soprattutto dagli studenti del Liceo Linguistico e del Liceo Classico della Lingua Straniera, spesso evidentemente in possesso di competenze e capacità più definite sia nella lettura e comprensione del testo sia nel coglierne tutti gli aspetti formali, da quello fonetico all’articolazione sintattica al registro lessicale, e in grado di sentire abbastanza vicina la lingua del testo di partenza da poterne senza fatica fornire una prima, approssimata traduzione “di servizio”. Pochi di questi studenti avevano in precedenza frequentato il Laboratorio di Poesia, ma le basi teoriche necessarie a cogliere la specificità dei testi, ad analizzarli e porsi su di essi le domande pertinenti con un lessico esatto, sono state fornite dai docenti, gli esperti esterni Gobbi e Pezzini, in itinere più che in un blocco teorico iniziale. Si è trattato in effetti quasi totalmente di una pratica guidata, non di lezioni teoriche, e la teoria è stata indotta dal corpo vivo del testo, attraverso il testo, percorso e ripercorso capillarmente. Gli studenti, dopo aver discusso col docente varie ipotesi traduttive o traduzioni già pubblicate, venivano portati a fornire, come singoli o per gruppi di lavoro, delle loro traduzioni autonome, che erano poi lette e a loro volta discusse.

4.2.1. Dall’inglese. Più didatticamente attento ai livelli formali del testo poetico, agli aspetti tecnici del tradurre e ad alcuni problemi epistemologici (in che senso un testo è – o non è - traducibile? Cosa esattamente di esso lo è? Quali equivalenze, e a prezzo di quali cambiamenti, ricercare tra la lingua di partenza e quella d’arrivo?) ma sempre minuzioso nell’ascolto del testo Pezzini, che ha compiuto nei vari anni un percorso dalla poesia religiosa anonima in inglese altomedievale (da lui letto con competenza di glottologo), ai sonetti di Shakespeare e Donne, alla difficile e musicalissima poesia di Hopkins, fino a Dylan Thomas, Auden, Eliot.

4.2.2. Dal tedesco. Volutamente meno “tecnico” ma sempre ricco di cultura e sapienza poetica e ispirato ad una filosofia ermeneutica o neoermeneutica l’approccio di Gobbi alla poesia di Rilke prima, a quella di Celan poi. La lettura, l’analisi e la traduzione del testo poetico vengono riassunti nella prassi e nell’idea di interpretazione, e la sostanza di questa a sua volta nella paziente, attenta, amorevole abitudine all’ascolto, che fa risuonare in un dialogo ri-creativo le potenzialità della parola in tutto il suo spessore semantico e umano. L’antinomia di fedeltà/infedeltà al testo di partenza, tipica della teoria della traduzione, viene appunto superata nell’idea di una qualità di ascolto/lettura che si apre al testo lo ospita mentre ne viene ospitata, senza sovrapporvisi. Significativi gli approfondimenti, necessari a questo procedere ermeneutico, della spiritualità rilkiana e della cultura ebraica coinvolta nella poesia di Celan.


4.3. Laboratorio della canzone e della ballata
Esperienza di grande interesse e possibilità, anche per la caratura del personaggio che doveva condurla, l’autore e cantante Massimo Bubola, ma purtroppo cessata a percorso appena iniziato. L’obiettivo era creare nel Liceo una cultura “della canzone e della ballata” legata da una parte alla sensibilità per la poesia già presente qui e dall’altra alle esperienze di ascolto diffuse nel mondo giovanile, guidando un gruppo consistente di studenti dotati di competenze musicali preesistenti e di una sia pur minima base teorico-tecnica in campo poetico (poteva iscriversi al laboratorio chi avesse frequentato la parte iniziale di quello di Poesia) a comporre un certo numero di pezzi, da raccogliere poi in un CD e pubblicare. Ma si è probabilmente commesso l’errore di costringere un artista nel ruolo di docente e – altro errore, conseguenza del primo – di far precedere una parte teorica e di analisi dei testi risultata troppo arida alla parte (compiutamente mai realizzatasi) di composizione. Le presenze, già assai scarse nei primi incontri, hanno imposto l’interruzione del corso. Forse troppo ambiziose le aspettative, sproporzionate rispetto alle possibilità concrete, ma giusta l’idea di fondo, coniugare come in antico musica e poesia con una tensione verso una scrittura “alta” e non canzonettistica.

4.4. Laboratorio sulla genesi del testo poetico
La particolare vicenda editoriale vissuta da un piccolo gruppo di docenti – curare la pubblicazione di un numero consistente di poesie inedite di Alda Merini, dettate a voce ad uno di loro – ha suggerito di utilizzare i testi rivivendo con gli studenti, sinteticamente e per esempi, tutte le fasi del lavoro. In un anno già ricco di impegni, non si è potuto realizzare un corso con un monte ore significativo; ma è stata comunque un’esperienza singolare, anche perché avvenuta quando il libro non era ancora stato pubblicato. Gli studenti, ai quali sono stati forniti un quadro complessivo della vita e dell’opera della poetessa e una sintesi critica, hanno visto i testi nella forma in cui erano stati registrati durante conversazioni telefoniche, con incertezze di trascrizione, del tutto privi di punteggiatura, flusso ricco di ambiguità sintattiche e semantiche e passaggi dubbi da un punto di vista interpretativo. In base a tale genesi orale dei testi, ma anche alla storia della poesia di A.Merini, e cioè alle specificità linguistiche e ritmico-metriche del suo linguaggio da una raccolta all’altra, alle tematiche comuni al gruppo di testi e all’immaginario della poetessa, il docente che gestiva il corso ha giustificato, discutendole con gli studenti (quasi tutti già partecipanti al Laboratorio di Poesia), le scelte critiche compiute (ad es. quella di non inserire punteggiatura ma spaziature). È avvenuto che gli interventi degli studenti abbiano chiarito dei punti dubbi o portato a rivedere alcune scelte.


4.5. Conferenze: diverse modalità
Invitare nomi di spicco per conferenze in orario curriculare cui far intervenire le classi del Liceo accompagnate dal docente in orario, significa riempire l’Aula Magna ma rischiare una partecipazione per molti fredda, disattenta, incostante - a meno che il personaggio in questione non sia dotato di grande carisma. Per converso, invitare nomi pure importanti ma meno conosciuti al pomeriggio per incontri già nelle intenzioni più ristretti, significa avere un pubblico certo interessato e probabilmente partecipe anche nell’interazione con l’autore, ma talvolta numericamente davvero scarso. Si dice allora che le conferenze mattutine vanno preparate per tempo, presentando l’autore e leggendo i testi nelle classi previo coinvolgimento dei docenti, e convincendo i colleghi che quelle due o tre ore non sono “rubate” alle lezioni. E che vanno maggiormente pubblicizzati, e con maggior convinzione anche nelle classi, gli incontri al pomeriggio. Ma la realtà odierna della scuola, così complessa e ricca di attività, creerà sempre delle resistenze oggettive ad una partecipazione piena, consapevole e in cui singoli momenti si sommano con coerenza nel tempo. Il che non significa non valga la pena di insistere, magari ricercando produttive interferenze tra diversi momenti ravvicinati, come quando l’incontro con Loi, poeta in dialetto colto milanese, è stato preceduto di un giorno dalla lezione di Lorenzo Gobbi sulla poesia in gradese di Biagio Marin e su quella in veneziano di Eugenio Tomiolo, grandi nomi “veneti” del primo e del secondo Novecento.
Grazie a questi momenti si offre agli studenti l’occasione di conoscere pratiche e idee della poesia di grande valore, incarnate in percorsi di vita talora opposti, comunque originali e intensi: per citare solo alcuni aspetti, la naturalezza degli endecasillabi tronchi e vibranti sulle consonanti finali della lingua milanese “fraterna”, popolare, concreta e letteratissima di Franco Loi, una lingua che ha in sé una cultura e in cui il poeta “è immerso” nella sua interezza corporea-sentimentale-razionale, compreso il silenzio che è segno dell’Altro indicibile dentro e fuori di noi; lo stesso percorso ideologico di Loi dalla sinistra antagonista della Milano operaia all’attuale ispirazione religiosa e mistica senza certezze di comodo; il materialismo critico, razionalistico eppure affidato agli scarti “irrazionali” e carnevaleschi del linguaggio, medium ideologico da decostruire, di Edoardo Sanguineti, insieme giullare e accademico ma sempre dodecafonico “agitatore anarchico dell’inconscio” che traccia criticamente la storia del Gruppo ’63 e delle sue battaglie e derive nell’Italia dei decenni successivi; l’emersione dell’inconscio nella poesia di Donatella Bisutti, sul crinale tra forza oscura delle immagini e chiarezza del logos; il rifiuto di Roberto Sanesi del poeta “emozionato” e della poesia-confessione-psicanalisi, in difesa del fare e del farsi (questo sì emozionante) dell’organismo-poesia, teso alla chiarezza e al rispetto del lettore ma carico (traduttore) di inevitabili ambiguità, luci e ombre di un palcoscenico verbale; la scelta e la sofferta evoluzione della forma, composita e lirico-drammatica, del poemetto come cronaca della vita in Arnaldo Ederle, e il suo rapporto intricato con la tradizione, tutt’uno col corpo stesso del poeta. A questi personaggi, più che chiedere “cos’è la poesia”, ha avuto senso chiedere come la poesia “si fa” e cos’è stata la poesia nella loro vita.


4.6. Seminario “le parole della poesia”
Realizzare a distanza di mesi ma nello stesso anno scolastico due sessioni seminariali collegate, ciascuna di due giorni, con una persona come Antonella Anedda, tra le voci più importanti della poesia italiana attuale: un’idea ambiziosa e assai impegnativa dal punto di vista organizzativo e della disponibilità umana, sia della poetessa che di docenti e studenti, ma motivata dall’esigenza di uscire dalla meccanica delle singole conferenze, in cui era avvertito il rischio che il poeta si trasformasse in docente, in cattedratico che proponeva verità (certo vissute in prima persona, non scontate né semplici) sulla poesia di cui appariva unico depositario, senza interazione con gli studenti.
Il seminario, dal titolo “Le parole della poesia”, è stato preparato dalla presentazione dell’autrice e dalla lettura di un gruppo minimo di liriche tratte dai suoi tre libri di poesia (escludendo per il momento le raccolte di saggi e le traduzioni) condotta con i docenti e gli studenti che avrebbero poi sicuramente partecipato (una specie di “gruppo di lavoro” di quattro docenti e una decina di studenti, poi ampliatosi durante gli incontri sino a comprendere un numero variabile di 20-25 persone circa). Nella prima sessione seminariale, i due pomeriggi di ottobre, Antonella Anedda (oltre a parlare, peraltro brevemente, di sé e leggere i propri testi) ha tracciato una “mappa” delle parole della poesia – di ciò che la poesia è per lei, di ciò che la poesia fa o contrasta – chiedendo ai presenti di discutere o motivare a livello personale quelle parole o anche di aggiungerne altre: paesaggio, isola, solitudine, protezione, lentezza; attenzione, dettaglio, traduzione/passaggio; guerra, ferocia, perdita, coraggio ... . Poi ognuno ha svolto un piccolo esercizio, nato dall’ascolto di alcune poesie del libro Il catalogo della gioia, una sezione del quale si sviluppa in ordine alfabetico, coi suoni che generano parole-pensieri (ad es. “i come isola”): proposta la lettera “t come teca”, si dovevano scrivere brevi testi (poesie, ma senza preoccupazione di metro o rime o strofe) che continuassero quel suono e contenessero, come una teca, ciò che va salvato e ricordato. Esercizi simili sono stati svolti con altri suoni. Il risultato, assai positivo se si pensa che era il primo incontro, che molti dei presenti non avevano precedenti esperienze di laboratorio di scrittura o altro, e che si proponeva un esercizio obbediente insieme alla autonomia dei legami fonetici e alla meditazione personale, è stato di una quarantina di brevi testi di cui alcuni notevoli per significati ed espressività. Vale la pena di riportarne uno (anonimo: per rendere più libera l’espressione e vincere timidezze, i presenti non hanno firmato i testi):

Togliere il respiro, la pelle
escludere il mare, il movimento
tenere solo il fondo, il ricordo.

Tenere – una cosa –
tenere insieme il ghiaccio e la rosa
se spariscono e sono adesso
la stessa acqua, la stessa terra
tenerli insieme, e distinguerli.

Dove rimane l’escluso – cosa resta
sul fondo – da escludere ancora, da salvare
nel verso che si allunga pietoso, che tenta
di nuovo di essere teca, l’ultimo luogo.


Le seconda fase, i due pomeriggi di febbraio, è stata preparata da due incontri solo “interni” di quel gruppo iniziale di docenti e studenti, con un compito da svolgere: Antonella Anedda aveva chiesto di leggere alcune poesie della poetessa statunitense Elizabeth Bishop, sia nella lingua originale che in traduzione, e di ritradurle dividendosi in gruppi di lavoro, in modo che ogni gruppo proponesse una propria traduzione da confrontare con le altre. Va detto che la poesia di E. Bishop mostra un’attenzione continua, esatta e apparentemente fredda ai dettagli descrittivi, tra i quali o dal contesto dei quali emerge un elemento straniante che rivela una corrente emotiva sotterranea. Con A. Anedda, nei due pomeriggi conclusivi, i testi e le traduzioni sono stati riletti, ragionando sul valore dei termini impiegati, sulle sfumature di senso, su come la parola tenga in sé qualcosa della realtà, lo preservi, e contemporaneamente vi sfugga dicendo altro, e su come a questo processo avvenuto nella voce di un poeta si aggiunga l’altro processo della traduzione, del ridire in un’altra voce, una volta di più perdita e conservazione. Infine, i partecipanti hanno composto dei testi o degli abbozzi di testi ispirati ai temi o alle tecniche delle poesie tradotte.
Attraverso Antonella Anedda e la sua figura aliena dalla retorica studenti e docenti hanno ascoltato una “lingua disadorna” ma duttile, stratificata, più attenta alla realtà del mondo (e della parola) che all’io del poeta.



4.7. Giuria popolare: la lettura collettiva, la discussione analitica, la scrittura critica
I cinque anni di collaborazione con gli organizzatori del Premio Montano e in particolare coi redattori della rivista “Anterem” hanno introdotto un numero discreto di studenti (circa una decina per anno) in un mondo, quello di un premio nazionale di poesia, e in un’esperienza particolare, chiamandoli inoltre alla responsabilità del giudizio di valore, del voto e infine della scrittura critica col suo riscontro anche pubblico. I tre libri finalisti, è vero, non vengono letti per intero dagli studenti (si tratta solitamente di una selezione di circa venti, massimo trenta testi per libro, accompagnata da eventuali note critiche), anche perché forse non ve ne sarebbe il tempo (i libri arrivano all’inizio di maggio, ed entro fine mese vanno raccolti i voti su apposite schede); ma l’interesse è forte verso libri pubblicati l’anno precedente e opera di autori quasi sempre emergenti o noti solo agli “addetti ai lavori” (con presenze anche di grande spessore culturale, quale quella di Michele Ranchetti, poeta questo già affermato, filosofo e traduttore ad es. di Celan), anche per la complessità e talora la difficoltà del dettato se non l’oscurità con cui gli studenti devono spesso misurarsi, venendo gli autori selezionati da una giuria chiaramente indirizzata ad opere di ricerca e sperimentazione sul linguaggio. Questa la prassi: il docente che coordina il gruppo, distribuito il materiale, presenta brevemente autore per autore e libro per libro, per quel poco che va detto e che si può dire; poi, a turno, ognuno legge dei testi, sui quali inizia la discussione, cioè un percorso comune di analisi, interpretazione, collegamento agli altri testi, individuazione di una struttura e di un senso generale dell’opera, confronto con gli altri libri, commento e giudizio: nel corso del quale le opinioni si differenziano e si formano degli “schieramenti” a sostegno dell’uno o dell’altro; letti e riletti i testi e raggiunte non delle conclusioni ma delle formulazioni critiche parziali, si vota: in base al risultato, gli studenti che di fatto scriveranno la pagina critica focalizzeranno maggiormente l’attenzione su uno, due o tre libri. Il “taglio” di questa pagina critica è ogni volta libero: la prima volta ne è uscito un “contrasto” critico a due voci, la seconda il racconto di un viaggio onirico attraverso i paesaggi verbali delle varie opere. Riportiamo due brevi passaggi dalla seconda, che ha per oggetto Questo transito d’anni di Simone Zafferani e La Transilvania liberata di Tomaso Kemeny:

Si delinea il mio viaggio nel “blu cobalto della notte”. Mi muovo su un sentiero che sembra tracciato. Riconosco le indicazioni impresse ai margini della strada e le seguo, segni familiari di un dolore che conosco e che ha vestito di sé ogni cosa. Sono noti i contorni e le linee di molti corpi, tanto che la strada pare evocare continuamente immagini viste altrove, quasi promesse rassicuranti di trovarmi in un mondo che ho già attraversato più volte. Appoggio il mio piede sopra l’impronta del poeta lasciata sulla neve e faccio sì che i suoi passi diventino i miei.
Per vedere un’altra notte, più profonda e buia, la notte transilvanica, devo chiudere gli occhi. Arrivati qui camminare, seguire una strada non è più possibile. Ci si può soltanto abbandonare a questo meccanismo di associazioni e richiami, al dissolversi di un’immagine in un’altra. Lasciare, come bambini nella culla, che le parole della madre si incarnino nei personaggi dei sogni, si mutino in figure danzanti e mobili a cui accodarsi. Mi ritrovo a seguire “l’aquila in volo prima che fossero creati i cieli”, è perso il filo, la traiettoria non esiste.

(da Per paesaggi, scrittura critica per il Premio Montano 2006 di Giorgio Fogliani, Annalisa Lombardi, Chiara Pozzati)


4.8. Premio di poesia Liceo “Maffei”. Festa della poesia
Mediamente, partecipano a questo concorso di scrittura, privilegiando le sezioni dedicate alla poesia singola e alla poesia o alla prosa ispirata liberamente ad un’opera d’arte, tra i trenta e i quaranta studenti per anno. Pochi in assoluto, troppi se dovessimo considerarli – e dovessero considerarsi - poeti. Ma noi pensiamo sia un fatto largamente positivo che molti partecipino, e che non si possa pretendere l’assenza di luoghi comuni e ingenuità nel loro operare. Al contrario, va rimarcata la qualità spesso alta dei testi, e spesso di studenti (questo conforta invece che deludere) non iscritti ai vari Laboratori; inoltre, ci appare interessante in particolare il nucleo da cui si è sviluppato il Premio, e cioè la sezione “Scrivi sull’arte”, testimonianza (come per altro verso le scritture critiche della Giuria Popolare) di una capacità diffusa di utilizzare un linguaggio specifico, in questo caso quello della poesia, per rivolgersi ad un altro linguaggio, quello figurativo, e dialogare con esso. Ci pare infine giusto concludere le attività di ogni anno con una Festa della Poesia, dove la poesia torni ad essere festa col suo miscuglio di “aura” sacrale e di gioco, e non solo lavoro, analisi, fatica, lenta costruzione. Riportiamo alcuni testi:

Di Alessandra Frison, 1° posto sez. Poesia singola a.s. 2004-2005:

di ferita in ferita

Accartocciavo in rumori
le voci,
spersi filamenti
tra gli angoli d’aria
in grumi di noia.
Nei treni
passavo le mani
di ferita in ferita
a cogliere
un’intima pace.
E si affolla il silenzio
tra sangue
e piaga.


Di Francesca Castagna, sul San Sebastiano di Antonello da Messina, 1° posto sez. “Scrivi sull’arte” a.s.2004-2005:

Ascoltarti guardare in alto.
Se potessi dirti una sola cosa
(non direi niente).
Amare te è silenzio.


Di Andrea Gruberio, 1° posto sez.Poesia singola a.s. 2005-2006:

Dondola
in una vecchia canzone
il sole che si china
oltre gli alberi
la terra
scorre sul collo
della bottiglia,
vento e capelli
come ondeggio
di posidonie,
lamponi rossi
le labbra tue.
Un lieve sorriso
nel crepuscolo.


Di Atilio Romero Reyes, 2° posto sez. Poesia singola a.s. 2005-2006:
La mia Ogigia è la mia estasi

Così Omero cantò: ”V’è un loco
donde i pioppi odorosi e il biondo sole
offrono nido e copiosa prole
agli sparvieri dal becco di foco.

I bianchi gabbiani dalla mole
leggera stendon le ali lor non poco,
e le cornacchie dal lor verso roco
gracchian nei molli prati e nelle gole”

Ecco mentr’io leggo proprio queste
parole, svengo come fe’ il mio Dante
nell’infernale canto alle meste

grazie di Francesca,ché furon tante
le sue disgrazie e ancor son deste,
pondo pesante più di quel d’Atlante.


(il sonetto, metricamente approssimativo, è una sorta di parodia nella forma del pastiche di citazioni, seguito da una nota per la “non comprensione” del testo)

5. Quantità e qualità della partecipazione. Un gruppo fluido e il contesto scolastico.
Difficile dare una valutazione unitaria della partecipazione ad attività talora così diverse per tipologia, durata e tipo di impegno richiesto. Inoltre alcuni studenti partecipano a più attività e durante più anni di corso. Suddividendole tuttavia in ambiti (il laboratorio; il seminario; la conferenza) si può vedere come:
1. Nei Laboratori avviene in genere, durante il corso, un calo progressivo delle presenze, più consistente nel Laboratorio di Poesia (perché risulta più difficile sostenerne con costanza il carico di 20 ore, e forse perché appare più ostica la parte teorica e tecnica iniziale, negli anni in cui essa viene proposta in forma “chiusa”) e calcolabile come media dei vari anni in un passaggio da circa 15-20 presenze iniziali a circa 5-10 finali, meno consistente in quelli di Traduzione (più “leggeri” per carico orario e quasi totalmente focalizzati su un fare concretamente legato ai testi) che hanno finora ogni anno più o meno mantenuto il numero di presenze dall’inizio alla fine del corso, anche se con notevoli differenze e una forte riduzione progressiva del numero totale da un anno all’altro (si va da una trentina di iscritti un certo anno alla decina dell’anno successivo, ai quattro o cinque iscritti del terzo anno ecc.). Questo si potrebbe spiegare col fatto che mentre il Laboratorio di Poesia occupa la prima parte dell’anno, relativamente libera da impegni pomeridiani, garantendosi in questo modo una possibile partecipazione, gli altri Laboratori sono stati programmati finora nella parte media e finale, dove tutte le attività si concentrano e concludono e aumenta anche la preoccupazione degli studenti per la propria valutazione nelle varie discipline, col risultato di una oggettiva difficoltà di partecipazione. Ma allora perché nei primi due anni di effettuazione le presenze ai Laboratori di Traduzione sono state comunque folte (e hanno visto partecipare anche alcuni docenti di Lingua straniera)? Forse è la stessa moltiplicazione delle attività (non solo le nostre) a inibire la partecipazione. Ultima annotazione: pur con una presenza a volte saltuaria, ma nell’insieme costante da un anno all’altro, si individua un gruppo di studenti “affezionati” all’esperienza dei Laboratori, ad uno o a più di uno di essi, che tornano di anno in anno e accumulano letture, esercizi, testi, traduzioni...
2. Gruppo che ha partecipato, con altri studenti e con alcuni docenti, al seminario con Antonella Anedda, esperienza dislocata in due fasi diverse dell’anno, iniziale e centrale, tra le quali si è notato in effetti un certo calo di presenze (da 26 a 14). Questo, oltre a ragioni di organicità, consiglia di pensare a seminari più compatti e più brevi.
3. Già si diceva (§ 4.6.) della diversa partecipazione alle conferenze mattutine, con un’Aula Magna talora piena ma in parte distratta, e a quelle pomeridiane, nelle quali si oscilla tra i 30 e i 10 studenti ma con una partecipazione più viva.

Si è già detto anche del Premio di Poesia Liceo Maffei e della Giuria Popolare, esperienza questa a sé: la decina di studenti che la compongono ogni anno (e ogni anno in parte gli stessi, in parte diversi) partecipa intensamente, senza assenze, e alcuni di loro restano in contatto anche dopo gli incontri per la stesura del saggio critico. La festa che conclude le attività annuali vede la presenza in Aula Magna di un numero di studenti variabile tra i 50 e i 100.
Nel complesso, ci pare che ogni anno (ma il 2004-2005 è stato finora quello più ricco e intenso) prenda parte alle attività un centinaio di studenti; più difficile dire quanti abbiano preso parte finora, dal primo anno, poiché di anno in anno parte di essi resta e parte cambia.
Ci pare di poter dire che: le attività devono essere calendarizzate e scandite con attenzione, preferibilmente nella prima parte dell’anno o al più tardi in quella centrale (inizio II quadrimestre); vanno evitati carichi orari troppo impegnativi (i Laboratori non dovrebbero superare i 5-6 incontri, e cioè le 10-12 ore); le attività che prevedono più incontri, Laboratori o Seminari che siano, vanno compattate il più possibile; le conferenze vanno preparate per tempo dal lavoro nelle classi, dalla diffusione di materiale, da una ricerca di adesioni più convinta, e vanno aperte con decisione anche ad un pubblico esterno e pubblicizzate.


6. Obiettivi e finalità realizzati. I testi. Vi sono ricadute sull’attività didattica, l’apprendimento e il contesto scolastico?
Non sono mai stati previsti, finora, test di verifica in entrata o in uscita dai vari Laboratori, o altre forme di verifica e monitoraggio delle attività. Quindi, oltre alla presenza fisica e alla qualità della partecipazione, l’unico altro modo di valutare l’efficacia didattica ed educativa delle attività, è considerare i testi scritti dagli studenti, “obiettivi raggiunti” molto concreti. Crediamo si possa riconoscere la qualità dei testi prodotti dai Laboratori (non abbiamo riportato, per motivi di spazio, dovendo in tale caso riportare anche i testi tradotti, i testi prodotti dai Laboratori di Traduzione) come dal Seminario, per il Premio interno o per i libri valutati nella Giuria. Non pensiamo di poter dire, con questo, che abbiamo scoperto o allevato dei poeti. Forse avrebbero scritto comunque, ma ci piace pensare che abbiano scritto, e scritto così bene, anche grazie alla Scuola di Poesia, e che in essa abbiano capito qualcosa del fare poesia (non della Poesia) e anche di sé. In questo senso, riteniamo che le finalità generali della Scuola (§ 2) siano state in qualche misura raggiunte per chi ha vissuto con intensità le esperienze proposte.
Purtroppo, non abbiamo (sarebbe difficile averne) verifiche di eventuali ricadute positive sull’attività didattica e sul rendimento degli studenti, ad es., in Italiano, o in Inglese ecc. Anzi, capita a volte il contrario: gli autori dei testi migliori e i partecipanti più assidui possono avere una carriera scolastica travagliata.
Difficile anche dire se e come la presenza della Scuola, quel gruppo o “comunità” di studenti e docenti che si riforma ogni anno, le attività ormai conosciute e più o meno estese al corpo ampio dell’istituto, ne abbiano modificato in qualche modo positivamente il clima, la qualità. Noi speriamo di sì, ma dobbiamo ammettere che la partecipazione via via più difficoltosa e numericamente in alcuni casi più scarsa, testimonierebbe, come un feed-back negativo, una relazione di segno e direzione contrari.


7. Utilità e insegnamento della poesia. La poesia nell’impoetico
Ragionare di obiettivi, finalità e ricaduta didattica di una scuola di poesia implica un’idea dell’utilità, se non della poesia, almeno del suo insegnamento in una esperienza denominata “Scuola” e interna ad un’altra Scuola, il Liceo. Ma, molto rapidamente a questo punto, vanno affacciati dubbi e considerazioni. Come si chiariva all’inizio (§ 1-2) è radicale, perché riguarda non le nozioni ma l’atteggiamento di fondo ancor più che le pratiche, la differenza tra gli insegnamenti praticati nelle due scuole, l’una parte dell’altra. Tale differenza non è però contraddizione (se lo fosse, sarebbe incongruente l’inserimento della Scuola di Poesia nel P.O.F.): entrambe, pensando a finalità ancor più generali, mirano alla formazione di individui e cittadini liberi, capaci di criticità, non alienati nei rapporti sociali e interpersonali, dotati di strumenti di comprensione e comunicazione all’altezza del mondo odierno. La Scuola di Poesia cerca di perseguirle con un’idea diversa di “utilità”, che in alcun modo può essere considerata un’utilità strumentale rispetto a dei fini pratici, peraltro legittimi; anzi noi concordiamo, credo, con l’idea leopardiana della perfetta inutilità della poesia. In questa sua “inutilità” o, per essere più chiari, nel suo antiutilitarismo risiede la scommessa sulla sua utilità vera, sul fatto che la poesia possa liberarci liberando il linguaggio dalla sua funzione strumentale, rendendo il linguaggio la “cosa” originaria che ci parla, non segno univoco nelle nostre mani ma simbolo plurale a cui ci affidiamo. Solo in questo senso pensiamo che la poesia sia utile, e utile il suo insegnamento. Per quanto sia possibile insegnarla. Detto che non crediamo possibile né desiderabile “fare” dei poeti, e che la letteratura si può insegnare ma la poesia in quanto vocazione profonda probabilmente no, ma è bensì possibile scoprirla e aiutarla, cosa significa “insegnare” e “imparare” in una “scuola di poesia”? Come speriamo di aver chiarito, significa vivere come esperienza il fare e il farsi della poesia, e se non della poesia di una parte del mondo che essa è: già questa un’impresa quasi impossibile. Anche il termine “scuola” allora, quando questo accade, torna ad assumere il suo senso antico e, per noi, sempre nuovo, di “tempo libero” per la mente, e liberato.
Non dimentichiamo le aule affollate al mattino e semivuote in certi pomeriggi, i programmi e le lezioni, le riunioni e gli scrutini e i problemi educativi e quelli pratici ... Parlare di poesia, cercare di fare poesia non deve accadere altrove, né la poesia è un Altrove metafisico. Un verso, in fondo, è un verso. È proprio nell’“impoetico” dei luoghi quotidiani che la poesia deve cercare spazio.


8. Possibilità
Indichiamo ora delle linee di sviluppo per il futuro immediato, idee e possibilità che si sono affacciate in questi anni, hanno fatto da sottofondo al nostro lavoro, ma che per diversi motivi non si sono realizzate.. Sappiamo del resto che se, per ipotesi, in un certo anno a ciò che già facciamo dovesse aggiungersi tutto quanto ora proponiamo, ci troveremmo a dover organizzare e gestire – e gli studenti a dover scegliere - un ventaglio troppo ampio di attività. Non è la nostra intenzione, e molti corsi non partirebbero per carenza di iscritti. E, in fondo, un progetto troppo complesso e “pesante” contrasterebbe con la leggerezza, la lentezza e la profondità che la poesia, anche qui, ricerca. Ma ecco le strade possibili:

• Indirizzare più chiaramente il Laboratorio di Poesia lungo alcune direttrici di ricerca, difficili da tenere assieme in un corso solo ma da seguire e sviluppare attraverso gli anni: il ritmo, legato al metro e alla sua storia, al respiro e alla voce e alla fisicità, a significati di ordine psicologico e socio-culturale; le forme del testo e il loro rapporto, la loro evoluzione, il loro valore simbolico all’interno di definite idee dello scrivere; il valore e la funzione della retorica, il concetto di “figura”, la sua genesi nel processo creativo; l’idea di “poetica” e il suo nesso con l’esperienza di vita, la tradizione, la società; il lavoro sul testo come prassi artigianale colta che libera le capacità genetiche e i valori formali di una lingua; autori e testi del Novecento italiano.
• Affiancare ai laboratori di traduzione già funzionanti un laboratorio dal Francese, uno dallo Spagnolo e uno dal Greco moderno, uno dal Latino e dal Greco antico; potenziare la riflessione sui problemi teorici, epistemologici e metodologici del tradurre.
• Realizzare un laboratorio o almeno un singolo seminario sulla poesia dialettale novecentesca.
• Estendere il Premio di Poesia ad altre scuole superiori veronesi, con una giuria evidentemente non solo maffeiana.
• Pensare ad un programma di incontri con gli autori e di “letture” ermeneutiche di testi di autore da parte di critici, eventi connessi da un tema di fondo, ad es.: la lirica greca arcaica, Leopardi e il suo rapporto con l’antico, un autore romantico straniero, un poeta italiano contemporaneo e il suo rapporto col linguaggi della tradizione e le figure del mito ...
• Privilegiare come momento culminante di ogni anno di corso l’incontro e la collaborazione seminariali con un autore, per costruire esperienze “di durata”.
• Attivare un gruppo informale di lettura, di testi di autore e propri, aperto a studenti, docenti, personale non docente, esterni ...
• Fondare una rivista maffeiana di scrittura, letteratura e critica, aperta a studenti docenti ed esterni.
• Pubblicare un’edizione dei testi prodotti sinora dalla Scuola di Poesia, curata da docenti e studenti.




(articolo per l’Annuario del Liceo, edito aprile 2007)