31 marzo 2007

Premio "Lorenzo Montano" - scritture critiche degli studenti

PER PAESAGGI

pagina ispirata ai libri finalisti della sezione “Poesia edita”
del Premio “Lorenzo Montano” 2006
di
Giorgio Fogliani, Annalisa Lombardi, Chiara Pozzati
del Liceo Ginnasio di Stato “Scipione Maffei” di Verona


Si delinea il mio viaggio nel “blu cobalto della notte”. Mi muovo su un sentiero che sembra tracciato. Riconosco le indicazioni impresse ai margini della strada e le seguo, segni familiari di un dolore che conosco e che ha vestito di sé ogni cosa. Sono noti i contorni e le linee di molti corpi, tanto che la strada pare evocare continuamente immagini viste altrove, quasi promesse rassicuranti di trovarmi in un mondo che ho già attraversato più volte. Appoggio il mio piede sopra l’impronta del poeta lasciata sulla neve e faccio sì che i suoi passi diventino i miei.
Per vedere un’altra notte, più profonda e buia, la notte transilvanica, devo chiudere gli occhi. Arrivati qui camminare, seguire una strada non è più possibile. Ci si può soltanto abbandonare a questo meccanismo di associazioni e richiami, al dissolversi di un’immagine in un’altra. Lasciare, come bambini nella culla, che le parole della madre si incarnino nei personaggi dei sogni, si mutino in figure danzanti e mobili a cui accodarsi. Mi ritrovo a seguire “l’aquila in volo prima che fossero creati i cieli”, è perso il filo, la traiettoria non esiste.
Anche sulla neve comincio a perdere le tracce. Lo stesso poeta che aveva affermato “Se ero fermo in un punto, da quel punto pensavo la traiettoria/per disciplinarla” mi dice adesso che “non siamo in nessun punto e la traiettoria è persa”. Cerco sugli scogli una sosta. “Il punto in cui la memoria cede al dolore”? Oppure la pausa è ciò che fa sì che “curare la ferita/lenire/non sarà impossibile”? Che cos’è la quiete? Occasione per tracciare di nuovo la rotta che si era persa o condizione determinante l’autodistruzione, il logorarsi delle cose? Cosa significa il centro? È punto di potenzialità allo stato puro, comune a trifoglio e quadrifoglio? È l’essenza delle cose a cui possiamo giungere solo liberati dalla “tristezza che non dà scampo”? O è l’occhio di questo ciclone sconvolgente, che sta sollevando quantità impensabili di polvere su un mondo che mi era parso consueto? All’occhio del ciclone si può o non si può tendere l’arco? Perché perfino il gelo che sento entrare nelle ossa sembra portare valori differenti? Unico sollievo “Nel cavo di un cuore steppa” e poi inverno a cui resistere con “un’ostinazione atlantica”. Perché anche la luce continua a cambiare, così che le stesse cose mi appaiono con sfumature diverse, quasi tele impressioniste, dipinte a poche ore di distanza l’una dall’altra, quasi parole scritte con caratteri, alfabeti diversi?
Questo vortice confuso mi riporta al sogno. Qui, illuminata dal “cerchio cocente del sole”, si staglia davanti ai miei occhi la “austera, solenne e risonante/cattedrale della fede poetica”. Incantato dalla sua grandiosità, mi avvicino al portale, devoto. È allora che un’impertinenza bambina, nata dall’incredibile lontananza del canto e delle cose, mi porta a bussare sulla parete di pietra, quasi a volerla smascherare, scoprire di cartongesso. Sono davvero sciamani quelli che vedo agitarsi sul fondo e quelle che sento sono proprio grida di guerrieri? O si tratta solo di costumi di scena ed è una gigantesca recita quella a cui sto assistendo, portatrice di un significato altro che adesso non riesco a cogliere?
La cenere dei sogni si dilata “a immagine della volta stellata” e mentre Urania sparge il suo canto io osservo e cerco di decifrare “questo transito d’anni”, provando a riallacciare gli elementi, a seguire l’evoluzione emotiva che ha segnato il poeta in questo lungo arco di tempo. Un percorso che, partendo da un dolore puro e pressoché globale, da un sentirsi distanti dal mondo, toccati dal tempo solo superficialmente, in lontananza, sembra portare ad un rafforzamento, ad una possibile resistenza al gelo che ci rende simili al pettirosso che canta la sua durata “al braccio dell’inverno che annotta”. Eppure ci sono poi altri momenti in cui tutto viene nuovamente messo in discussione ed io, spiazzato e confuso, mi abbandono a indecifrabili significati che mi sfuggono, fino a quando non è il poeta stesso che sembra puntare il dito in una precisa direzione: “Uscire è come divagare e molto si deve camminare/fino al punto in cui il pensiero torna a sé […] Io sono caparbio e mobile. Tu aspettami/ non spaventarti/portami verso una curva più lieve del cuore/dove il fiume possa specchiarsi e sentire/che il viaggio riparte, che i platani continueranno”
Seguendo il fiume lo scopro essere diventato quello della Transilvania, un fiume eterno, che “varca il gorgo luttuoso del tempo”. Non termina con l’aquila disseccata, con il crollo degli imperi, con il poema incompiuto nelle mani del messia magiaro, ma prosegue in un’ultima appendice, in un’invocazione sospesa allo sciamano. Il mio viaggio iniziato di notte termina nell’ardore di un fuoco giovane.

(il testo è risultato vincitore della sezione riservata alle scritture critiche degli studenti delle scuole veronesi)

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