Si sono dette e scritte molte cose in questa settimana su Alda Merini, tutti quanti noi un po’ alla ricerca di una esclusività, di una verità, di un personale possesso o di un accesso privilegiato a una vicenda umana e poetica che rimane comunque nella sua realtà e unicità indecifrabile.
Io vorrei invece soffermarmi su una coincidenza che mi ha interpellato nel momento in cui mi sono chiesto che cosa ancora aggiungere al tanto già detto. Devo parlare per un momento di me e me ne scuso: ma è per la seconda volta che mi trovo qui, in questa chiesa, per provare a raccontare qualcosa sulla figura di Alda Merini, in assenza però di Alda Merini e quindi anche sulla sua assenza. La prima volta, alcuni qui lo ricorderanno bene ed è un ricordo che ora ci riempie di nostalgia, fu qualche anno fa: avevamo organizzato con don Marco e altri amici, Luca Bragaja, Massimo Natale, una serata con lei proprio qui e lei, all’ultimo, non venne: chi abbia un po’ di confidenza con Alda Merini e il personaggio che lei si era ritagliata e giocosamente, ironicamente cucito addosso, sa che questo era in fondo uno dei suoi modi di essere presente, forse anche una delle sue civetterie e timidezze; avevamo messo fuori della chiesa un cartello in cui si diceva appunto che la poetessa non sarebbe stata presente e che, per chi avesse, voluto, sarebbero state lette delle sue poesie con qualche parola di commento. La chiesa, al di là di ogni nostra attesa, si riempì lo stesso.
Amava giocare a sparire la Merini per poi magari ricomparire all’improvviso in una telefonata notturna e lunghissima.
Stasera, siamo di nuovo qui, ancora a cercare di raccogliere intorno ad un vuoto un po’ di parole e musica, quasi a volerlo misurare e toccare questo vuoto di fronte a un’assenza stavolta però ben più muta e abissale, spaventosa nella sua irreversibilità e però misteriosa nella forza che da essa si promana e che ci ha ancora condotti fin qui.
Tutto questo mi fa pensare a quanto in fondo quello dell’assenza sia stato uno dei modi del vivere di Alda Merini e dei fertili motivi all’origine della sua poesia; lei così a lungo assente dopo gli esordi giovanili, e sempre un po’ assente e immersa in una sorta di lontananza anche quando aveva ripreso fama e notorietà; e penso a quante assenze popolavano la sua vita, assenze per così dire corpose e quotidianamente frequentate nella memoria ma anche negli spazi della sua casa: i poeti amici di un tempo, l’assenza del marito, l’Ettore, che lei ci raccontava ogni tanto tornasse in un soffio d’aria o in uno sbattere di porte e si accomodasse sulla vecchia poltrona di fronte a lei. E quante assenze ha narrato nella sua poesia, quante vite mancate, quante sparizioni, quanti amanti assenti, corteggiati, implorati o maledetti. E penso anche a quanto il suo parlare privato e pubblico, spesso con noi quando l’abbiamo incontrata, si sia più volte soffermato su quella che è l’origine e il luogo di ogni assenza, proprio sulla Morte che ora è divenuta il nome e il luogo del suo non esserci.
Alda Merini è stata una esploratrice e interlocutrice dell’assenza, delle assenze, che lei ha indagato e popolato di presenze, nomi e figure.
In tutto questo credo che lei ci abbia insegnato, a me ha insegnato, che, se esiste un principio di realtà che accompagna e modula un principio di piacere, dovrà forse pure esistere, dentro l’esperienza del dolore, anche una sorta di principio di irrealtà dove raccontarsi e inventarsi e inventandosi e raccontandosi, forse guarire e poter ora anche rimanere nella vita, se non più in vita. A me Alda Merini ha dimostrato che esiste una dimensione di irrealtà che può essere abitata, esiste un invisibile che attraversa la concretezza della nostra vita. Credo che questo invisibile e questa realtà siano stati fonte e spazio della sua poesia, di quel dono che lei sempre aveva riconosciuto come misteriosamente ricevuto e che ora altrettanto misteriosamente avrà ricondotto alla sua origine e restituito moltiplicato.
Ora che Alda Merini non c’è più, almeno nei termini in cui siamo soliti distinguere tra ciò che c’è e non c’è, a me, che ho avuto la fortuna di poterla avvicinare, resta soprattutto un senso di tenerezza per una donna che, dentro i suoi mille travestimenti e invenzioni, mi sembrava rimanere nel suo intimo e nei suoi pudori l’inquieta adolescente del dopoguerra, “minima ed immensa” come si definiva in una poesia di quegli anni; o la signorina degli anni Cinquanta che camminava, composta e un po’ sfrontata insieme, per le strade di Milano con sguardi già pieni di allarme
E mi resta anche un senso di gratitudine perché Alda Merini ha saputo portare la parola dell’umano nei luoghi senza parola, muti e disabitati della follia, e estendendo fin là i confini della poesia ha esteso fin là i confini della nostra umanità, consentendoci di abitarli ora e nominarli senza paura; a me ha mostrato che dove può arrivare la parola della poesia può arrivare per l’uomo, e in fondo per ciascuno di noi, la possibilità di “salvarsi” se non nei termini della certezza e della sicurezza, in quelli della possibilità di esistere con i propri sogni e fantasmi d'amore e di dolore.
10 novembre 2009
05 novembre 2009
Siamo ridotti a così maligne ore
da chiedere implorare
il ritorno della morte
come male minore
da chiedere implorare
il ritorno della morte
come male minore
Etichette:
Andrea Zanzotto,
da Conglomerati,
Mondadori 2009
Iscriviti a:
Post (Atom)